Il processo vero e proprio inizierà a gennaio del prossimo anno. Ma già da adesso il dibattimento è da seguire perché insegna non una tecnica di confronto civile o penale, ma l’articolazione di una società democratica o tirannica. Nientemeno.

Due giorni fa, senza nessun sgarbo, con tutti i riguardi del caso – barba tagliata, vestito elegante – il rais dell’Iraq è stato condotto in tribunale a Bagdad e consegnato nelle mani della forza pubblica del luogo. Il significato del gesto è chiaro: non vogliono essere i “nemici” - americani, inglesi, spagnoli, italiani che siano – a giudicare un dittatore per le sue malefatte ciclopiche. L’accusato è posto nelle mani anche dei suoi connazionali. Vedano loro come giudicarlo. Ed è un peccato che soltanto qualche giorno fa sia stata ripristinata la pena di morte. Bisognava lasciare le leggi come erano e come sono state violate durante la guerra: violenze non sempre motivate, lotte di intolleranza religiosa, mancanza di rispetto dei diritti fondamentali delle persone, soprattutto delle donne, diffusione di gas in vista di genocidi, quattrocento fosse comuni appena ritrovate, tremila uomini trucidati dalla forza pubblica sotto un governo brutale, venuti alla luce recentemente ecc.

E invece, ecco che Saddam Hussein inizia il processo ancor prima di ascoltare i sette capi d’accusa che gli vengono mossi. Non presenta la ricusazione dei giudici. Inverte addirittura le parti e si mette lui a fare il giudice ponendo sotto accusa tutto un popolo che per assai più della metà non lo riconosce più come capo e una magistratura che non sembra aver nulla da rimproverarsi al riguardo. Insomma, dietro le sbarre Saddam Hussein è pronto a pronunciare la sentenza contro tutti coloro che gli sono contro. Ecco un altro – e che altro – concetto di democrazia. Non è che lo imbavaglino e gli proibiscano di interloquire. Lo richiamano perfino a una qualche gentilezza di linguaggio quando chiama cani i curdi ammazzati.

Le parti del gioco tremendo si stanno delineando. Dopo i preliminari, arriverà l’escussione dei testi e la audizione degli accusatori. Il punto focale, però, sarà se si potrà comminare la pena di morte o si dovrà ripiegare su provvedimenti più blandi. Qui qualche cattolico si ricorderà che Tommaso nel De redimine principum  ammette la soppressione del tiranno – pare – almeno in alcuni casi. Ma la fattispecie morale non è così chiara. Nel caso di Saddam Hussein, poi, non si tratta di qualcuno o di una congrega che voglia togliere di mezzo un prepotente. E’ un popolo che, nella sua maggioranza – a quanto sembra – chiede giustizia. E comunque, la magistratura agisce a nome del popolo sovrano. Purché ci si risparmino i desolanti spettacoli presentati con furia sprezzante a piazzale Loreto e a Novate di Mezzegra. Anche in questo caso – a costo di incontrare contradditori risoluti -, rimango del parere che la pena di morte è da riservare a situazioni in cui non è più possibile impedire che il reo nuoccia, se non è soppresso. Compassione. Pazienza. Dono del tempo perché la coscienza riabbia il coraggio della lealtà e della rettitudine. E Dio aiuti. Anche con la giustizia degli uomini.

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