Omelia nella Messa della Notte di Natale

Como, Cattedrale, 25 dicembre 1997

 

Perché l’approssimarsi del Natale ci richiama a una qualche ricerca di un Dio che pensavamo di aver liquidato come inutile o ingombrante?

Perché ci sentiamo come strattonati e sedotti a entrare in una chiesa dove poter riascoltare le nenie di un tempo e avvertire, pungente, una nostalgia di innocenza ormai lontana e, magari, anche prossima?

Perché dobbiamo resistere a metterci in ginocchio per dire con senso di sollievo e di costernazione quanto abbiamo peccato e quanto dobbiamo fare spazio nel­l’animo affinché Dio vi entri con la sua misericordia?

Perché siamo come tentati di accostarci alla Tavola eucaristica per ricevere un tozzo di pane che, durante l’infanzia, ci è stato detto essere il Corpo di Cristo? E magari non possiamo fare la Comunione dal momento che non ci scopriamo in pace con il Signore?

Perché questo fascino subito da chi si avverte attratto dalla voglia di convertirsi, mentre si sente bloccato da opere cattive che gli impediscono di scorgere la Verità di Dio nel suo Verbo incarnato, e trascinato a una deriva che sembra insopportabi­le, eppur si sente esitante nel cambiare modo di pensare e stile di vivere che si intuiscono come motivo di gioia inesprimibile?

Perché questo agitarci che si stempera in regali e in sciupii di chi si lascia tra­sportare dalla macchina del consenso consumistico, mentre il fondo dell’animo esige ben altro?

Perché tentiamo di strappare dal cuore il desiderio di riposare in Dio, dal mo­mento che il lasciarci perdonare ci riappacifica, ma al tempo stesso ci tormenta, perché non siamo ancora santi?

Perché ricorrere a tante obiezioni, perché lasciarci trasportare dalla chiacchiera del mondo, perché non inchiodare l’animo all’interrogativo discriminante - l’uni­co -, che ci fa sperimentare Cristo come necessario per essere noi stessi?

Perché non arrenderci dopo le indefinite volte in cui abbiamo tentato di essere noi stessi autonomie perfette, mentre ogni volta ci siamo scoperti mendicanti di Dio e fratelli di tutti e bisognosi di una speranza che non delude?

Perché la paura di uscire dalle tenebre e di entrare in una luce abbagliante, e liberarci dal giogo che ci opprimeva per avvertire la tenerezza dolcissima di un Dio che è potenza, ma congiuntamente è Padre e Principe di pace?

Perché distogliere lo sguardo da un Dio che diviene Salvatore in Gesù Cristo il quale ha dato se stesso per noi per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga, zelante nelle opere buone?

Perché negare posto al Signore che viene e applicarci a passatempi mortalmente noiosi pur di difendere le nostre posizioni di assolutezza illusoria?

Perché rifiutarci alla semplicità del cuore di chi ascolta la gloria di Dio cantata nel più alto dei cieli e la pace promessa in terra agli uomini che Egli ama?

Siamo come legati a un dilemma inevitabile. Già l’indifferenza è rifiuto e colpa.

Abbiamo timore di lasciarci leggere nell’intimo e di consegnarci, abdicando a ogni nostra pretesa di autoredenzione; mentre la gioia vera ci viene regalata soltan­to quando ci perdiamo per ritrovarci.

Non dovremmo attendere i momenti in cui non possiamo più esimerci dal porci alternative supreme, perché la morte ci passa accanto o ci si profila davanti, perché la sofferenza attanaglia il cuore e morde sul corpo; perché il senso di fragilità e di miseria ci prende e ci lascia come sospesi in una condizione che si rivela insoppor­tabile.

Fatichiamo ad ammettere che un rimorso ci consuma dentro e ci toglie la sereni­tà. E, tuttavia, un rimorso ci consuma dentro e ci annuncia la promessa di una felicità possibile: una felicità non raggiunta da noi, ma consegnata a noi dal Signo­re a modo di dono; una felicità che ci si rivela inevitabile per poterci accogliere, dando significato e valore a ogni pensiero e a ogni gesto; una felicità senza la quale non possiamo nè vivere, nè dolorare, nè morire.

Vieni, Signore Gesù. E cadano tutti i muraglioni che abbiamo eretto attorno alla nostra miseria. E convertiamoci con la sicurezza che ancora tradiremo, ma il Si­gnore sarà più testardo di noi nell’offrirci il Suo perdono.

E la vita cambia. Non si possono trascinare i giorni nelle compere, nelle chiac­chiere da bar e nell’amaro che si avverte in bocca la sera, quando all’improvviso ci viene alla mente la direzione del nostro destino e cerchiamo di soffocare il proble­ma. Il problema siamo noi. Il Problema è questo Dio imprevedibile che ci tortura con la sua determinazione di volerci raggiungere per svellerci dal male e ospitarci nel caldo della Sua Paternità. Per Cristo nostro Signore.

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