L'umiltà di Dio

Omelia nella Messa della Notte di Natale

Como, Cattedrale, 25 dicembre 2005

 

Davvero santa è questa notte, che dall’eternità è stata scelta per dare inizio alla redenzione del mondo; santa, anche perché è irrevocabilmente segnata dalle sorprese divine e da un nuovo fiorire delle speranze umane.

Anche noi come i pastori - dopo che l'inattesa voce dal cielo li aveva destati - non ci siamo lasciati dominare dal sonno, e ci siamo detti: «Andiamo..., vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (cfr. Lc 2,15). E siamo venuti a questo rito notturno per contemplare più da vicino - e assimilare un po' di più nella vita del nostro spirito - la realtà misteriosa che ha colmato di sé l'intera storia umana: la realtà di un Dio che è entrato nella nostra vicenda e si è fatto uno di noi.

L'Unigenito del Padre, il Verbo consostanziale con lui, nella nostra vicenda è entrato, per così dire, in punta di piedi, come del resto era stato previsto da un antico testo ispirato: «Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose - così era scritto - e la notte era a metà del suo corso, la tua Parola onnipotente scese dal cielo, tuo trono regale» (cfr. Sap 18,14-15).

Chi si aspettava che la salvezza di Dio arrivasse con una manifestazione di potenza e fragore, ha dovuto disilludersi e imparare che le scelte di colui che è il Trascendente sono diverse e lontane dalle vie pensate e vagheggiate dagli uomini.

Chi invece - avendo un cuore senza complicazioni e senza pretese - cullava solo la speranza che l'iniziativa divina regalasse un po' di gioia ai tribolati figli di Adamo, è stato subito accontentato. «Ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo» (Lc 2,10): un annunzio di gioia è appunto la prima parola angelica risonata a Betlemme.

E' (come si vede) una gioia discesa dall'alto, che da quella notte fatidica sulla terra non si è spenta più; e noi in quest'ora magica e in questo suggestivo tempo natalizio (che ogni anno sembra quasi ridonarci una lontana innocenza) questa gioia la risentiamo zampillare più vivida nelle nostre coscienze, e vincere l'ottusità e la dissipazione che ci insidiano magari per dodici mesi.

Una gioia, ha detto l'angelo, «che sarà di tutto il popolo»: non dunque riservata ai soliti privilegiati dalla ricchezza, dal potere, dalla cultura, dalla notorietà. Una gioia "democratica", verrebbe fatto di dire, destinata a tutti, alla quale casomai si aprono più facilmente gli animi dei semplici e dei poveri. E noi tra i semplici e i poveri in ispirito ci sforzeremo in questo Natale di collocarci.

 

Qual è la ragione di tanta gioia?

Noi ci rallegriamo perché l'Eterno, l'Onnipotente, l'Onnisciente, è diventato uno di noi. E dal momento che lui è stato aggregato alla nostra famiglia, noi abbiamo avuto la facoltà di entrare a far parte della sua: «Venne fra la sua gente - sta scritto - e a quanti l'hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio» (cfr. Gv 1,11-12).

Colui che è eterno nasce nel tempo e comincia a contare i suoi anni, come li contiamo noi.

Colui che è onnipotente inizia come tutti i neonati ad aver bisogno di tutto: del latte materno, delle fasce, di un po' di calore.

Colui che è onnisciente si sobbarcherà, come noi, alla fatica di imparare: imparare a parlare dalle labbra della sua mamma, imparare a lavorare nella bottega di Giuseppe, imparare a pregare e ad ascoltare le Sante Scritture nelle riunioni al sabato della sinagoga.

Sembra una favola, ed è la più vera e la più concreta delle realtà effettuali. Del resto, nessuna fantasia di poeta, nessun ardimento di pensatore o di mistico, avrebbe mai saputo nemmeno immaginare un'avventura così umile e così alta, così stupefacente e così consolante, come quella che ha escogitato e attuato l'amore misericordioso di Dio per le sue creature. L'imparagonabile bellezza di questa notizia - che stanotte brilla davanti ai nostri occhi di nuova luce e di nuova allegrezza - è da sé sola un indubbio segno della sua autenticità.

Con questo annuncio di gioia la nostra esistenza principia ad avere esperienza e a godere di qualcosa di nuovo.

Dopo il Natale, il nostro vivere non è più un vagare nel buio e in una inquietante perplessità, ma è un avanzare nella luce verso una mèta sicura. Colui che è nato a Betlemme così ci dice a buon diritto di sé: «Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12). L'eccezionale splendore, di cui si rivestono in questi giorni le nostre strade, è l'evocazione oggettiva (anche quando è inconsapevole e ignara) di questo gratificante convincimento delle genti che hanno la fortuna di celebrare il Natale.

Dopo che il Figlio di Dio, è venuto a condividere con noi l'enigma della sofferenza e l'ha impreziosito finalizzandolo all'espiazione di ogni colpa e alla rinascita di ogni valore, qualsivoglia dolore che dobbiamo affrontare (se riusciamo a vederlo con gli occhi della fede) non appare più solitario e crudele, perché lo sappiamo consonante con un disegno superiore di riscatto e di felicità senza eclissi.

Da quando col Natale ci è stato rivelato che nel segreto della Divinità c'è ormai qualcuno che non solo è il Signore dell'universo, ma è anche nostro fratello, partecipe dunque di tutta la nostra umanità, noi siamo certi che ogni nostra invocazione, ogni nostra supplica, ogni effusione del nostro cuore in pena, trova infallibilmente ascolto ed esaudimento presso il Padre della luce e il Datore di ogni regalo dall'alto e di ogni dono perfetto (cfr. Gc 1, 17).

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