Lo Spirito trasforma, unisce e manda

Omelia nella Messa di Pentecoste

Como, Cattedrale, 8 giugno 2003

 

La Pentecoste segna il compimento del mistero della risurrezione e della intronizzazione di Cristo alla destra del Padre, quando il Redentore diventa il motivo unico della salvezza di tutti e porta ogni persona e l’intero cosmo verso la pienezza che si avrà nell’ultimo giorno della storia. La Pentecoste è il mistero di visibilità comunionale, di manifestazione della Chiesa, di avvio verso una evangelizzazione universale; questa festa, però, ha pure un aspetto di tale intimità con Dio, da essere difficilmente descrivibile.

Per ordinare le idee, sulla traccia degli atti degli apostoli che narrano la discesa dello Spirito nel Cenacolo cinquanta giorni dopo la risurrezione, sulla traccia della lettera di Paolo ai Galati, dove l’apostolo descrive la miseria dell’uomo e le meraviglie che Dio compie in noi; sulla traccia del vangelo di Giovanni, dove Gesù promette il Consolatore che ci renderà testimoni e ci guiderà alla verità tutta intera: sul filo di queste pagine bibliche, consideriamo lo Spirito che: 1. trasforma; 2. unisce; 3. manda.

 

Lo Spirito trasforma

A ben vedere, ci si può addirittura chiedere se sia congruo e corrisponda a verità il parlare dello Spirito come di una entità astratta, o un essere personale lontano che non tocca nella nostra densità umana: sembra quasi che sia lo Spirito stesso a farci riflettere e a farci parlare di lui, dal momento che egli si colloca nel centro più recondito della nostra personalità, e guida pensieri e affetti e risoluzioni al punto che soltanto nello Spirito parliamo dello Spirito.

Ma è lo stile di Dio che si avvicina a noi nel Signore Gesù fin quasi a identificarsi con noi. Se la grazia è una chiamata alla vita divina, ebbene il nostro vivere in grazia è già risposta al Signore Gesù che ci interpella.

Mistero della nostra nascita dentro l’universo abbagliante e beatificante della Trinità: il Signore Gesù ci fa esistere come figli di Dio esattamente chiamandoci a un essere nuovo; e la sua chiamata non si riduce a un comando o a una esortazione; è una persona sussistente, è l’amore che annoda il Padre e il Figlio e che vibra in noi al punto che soltanto quando abbiamo ricevuto tale Spirito, noi possiamo dire in verità: “Abbà, Padre”.

La Pentecoste ci si rivela così come il dono dello Spirito che ci raggiunge nel segreto della mente e del cuore. E non solo ci coinvolge, ma ci trasforma: avviene in noi qualcosa di analogo alla incarnazione del Verbo per cui, al dire di Ambrogio, ogni anima cristiana concepisce il Verbo esattamente accogliendo lo Spirito che viene in noi. E’ la meraviglia della inabitazione del Paraclito, del Difensore, del Consolatore che ci trasforma nel Signore Gesù, della umanità del quale diventiamo come un prolungamento.

Così lo Spirito annulla le opere della carne che sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze orge e cose del genere: sembra di veder disegnata a tratti marcatissimi la rabbia e la disperazione della cultura in cui viviamo: la cultura che lo Spirito spazza via come al modo di vento gagliardo e brucia al modo di fuoco che si posa su ciascuno di noi. E il mondo si tenga le sue ebbrezze fugaci e deludenti. A noi preme lo Spirito che ha come frutto amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé.

Sembra qui accennato il dinamismo della vita di fede che ci rende connaturali al Padre attraverso il Signore Gesù nello Spirito. Sembra qui accennata l’esigenza di pensare secondo la mentalità di Cristo, di amare con il cuore di Cristo, di desiderare con l’attesa di Cristo. Chiamiamo virtù questi atteggiamenti fondamentali che ci permettono di vedere il particolare e l’orizzonte universale della storia e del cosmo: la fede che ci permette di intravvedere il disegno di Dio che si va attuando nell’ incontro terminale senza termine del Signore Gesù; la speranza che non consente all’animo di afflosciarsi su se stesso e di rassegnarsi a una sorta di fatalità che è attrazione del nulla, aspirazione a un annientamento che non può avvenire; mentre occorre sempre protendersi in avanti nella certezza assoluta che Dio non ci lascia senza mèta e senza strada, poiché nel Signore Gesù ci ha detto e ci ha dato tutto, e lo Spirito ci regala la forza di passi costanti, faticosi e via via leggeri; la carità che ci dispone e ci spinge a formare una cosa sola – un unico corpo – con il Signore Gesù e con i fratelli. E poi non si potranno dimenticare le virtù morali.

 

Lo Spirito ci unisce

Veniamo al mondo della vita trinitaria soltanto quando ci scopriamo come la eco di una vocazione rivolta a noi: vocazione che ha la densità e il fascino dello Spirito santo che viene riversato nei nostri cuori.

Emerge così non soltanto l’imperativo e il desiderio di una fraternità universale che trova la sua esperienza più spiccata nella comunione della Chiesa. E non si è di fronte a una sorta di addizione di soggetti unici ciascuno dei quali è se stesso e, al più, tollera di essere sommato agli altri. La chiamata che Dio ci rivolge nello Spirito ha l’identico significato della genesi del nostro trovarci uniti. Letteralmente: un cuore solo e un’anima sola, dal punto di vista soprannaturale.

L’accordo di due o più persone costituisce sempre un miracolo. L’accordo che può venire anche di là da ritrosie istintive, da pregiudizi quasi insopprimibili, da estraneità siderali, da contrapposizioni decisive, da accentuazioni diverse di spiritualità. Trovare un amico e un fratello significa permettere all’altro che esista prima di noi e ci chiami all’essere per poter essere con lui. E questo uscire da noi per diventare noi stessi, questo perderci per ritrovarci, affronta sempre il brivido di un’avventura umana mai conclusa. Noi siamo ciò che l’altro -  il quale ci ama - ci rivela a noi stessi e attende che evolviamo secondo il progetto che egli ha decifrato in noi e nella nostra vicenda. Nessuno sta solo. Solitudine è sempre disperazione. La fraternità e l’amicizia, invece, iniziano quando riusciamo a tenerci per mano e a comunicare il segreti più reconditi che siamo incapaci addirittura di svelare a noi stessi.

Qui l’elemento ultimo unificante è il bacio del Padre e del Figlio che si erge come persona e che si stabilisce come vincolo della nostra comunione interumana. Pentecoste ci appare così come la festa del mistico corpo di Cristo. Con le sue articolazioni ministeriali e carismatiche, con le sue variazioni di fisionomie, di colori e di toni; ma che è un unico corpo arcano del Redentore che procede verso il pleroma, la sua pienezza alla fine dei tempi.

L’amore fraterno ci appare non soltanto come un obbligo pesante e inefficace: è lo stesso coaugulo di persone diversissime che si comunicano i doni ricevuti dallo Spirito e che esercitano alcune funzioni a cui il Paraclito ha destinato, ma tutte al modo di un lieto servizio vicendevole: al modo di una grande, misteriosa ed entusiasmante e placata compagnia. Il tempo della Chiesa ci si mostra come la preparazione dell’ultima Pentecoste, quando lo Spirito saturerà i il tentacoli che uniscono ciascuno di noi a tutti gli altri e sarà gioia compiuta, di cui adesso abbiamo soltanto una lieve praelibatio. Lo Spirito, ancora, ci introduce nella verità e nella concretezza della vita di grazia con una intuizione e con una esperienza che non sono mai concluse: al dire di Tommaso il credente “percipit veritatem tendens in ipsam”. E aspettiamo del languido tempo che ci separa dall’incontro con Cristo: il tempo che ormai si è fatto breve e che scolora sotto i nostri occhi fissi nella bellezza oltre le ombre.

 

Lo Spirito manda

Aggiungiamo che la Pentecoste è festa missionaria. E’ il giorno in cui lo Spirito scende su Maria, sugli Undici e sulla primitiva comunità cristiana perché si aprano le porte del Cenacolo e si inizi ad annunciare che il Signore è risorto, e dunque il peccato e la morte sono vinti; e dunque non c’è possibilità di scoramento: nemmeno davanti all’evidenza dei nostri peccati e all’inconcludenza dei nostri sforzi, poiché Dio ha un cuore più grande del nostro e ci rinnova dopo ogni colpa e ci protende oltre i confini della Chiesa constatabile.

Certo si imporrà la coltivazione del dialogo per avvicinare i lontani: un dialogo lungo e paziente, buono e umile, affettuoso e comprensivo, che permetta di far cadere tutte le prevenzioni che insorgono tra di noi come degli algidi muri di vetro che ci permettono di vedere lucidissimamente gli altri, senza, però, poterli incontrare. Ebbene, il Signore Gesù ha infranto questi muri di vetro e se n’è insanguato tutto. Donandoci lo Spirito, ci orienta a coloro che già sono sotto il lavorio di Dio che fruga e tormenta l’animo di ogni uomo finché si plachi nell’Assoluto. E, tuttavia, non possiamo arrestarci a una sorta di buon vicinato. La pentecoste ci assicura che lo Spirito di verità e di grazia ci renderà testimonianza e anche noi dobbiamo rendere testimonianza a Cristo perché tutti siano una cosa sola in lui.

Pensiamo alle missioni che nulla hanno perso della loro validità e della loro urgenza alla luce della volontà che Dio ha di salvare tutti. Pensiamo a persone vicine che magari sono state sodali di cammino in certi momenti della vita e che poi hanno abbandonato la concretezza della redenzione nella struttura del Credo e nello schema dei riti sacramentali. Non abbiamo la possibilità di vantarci di ciò che possediamo, dal momento che tutto ci è dato a modo di regalo indebito: possediamo soltanto quanto ci è stato offerto. Ma questo tesoro, che pure conserviamo in vasi di argilla, non può essere custodito avaramente come un talento che seppelliamo volgendoci ad altro: questo tesoro dev’essere annunciato e proposto e offerto agli altri perché essi pure giungano alla pienezza di verità e di grazia e possiedano gli strumenti per raggiungere la verità e la grazia.

Forse non bisognerà immaginare lo svolgimento di questo compito missionario come qualcosa di diverso dal nostro vivere quotidiano. Se la nostra giornata e la nostra vita scorrono nello Spirito e nella imitazione di Cristo, allora, prima o poi, qualcuno si porrà l’interrogativo se uno stile di vita penitente, lieto, impegnato e benevolente si possa spiegare senza che uno sia certo di dover amare gli altri e aiutarli perché egli per primo è stato prediletto e soccorso. Da Dio.

 

Maria madre della grazia, dell’unità e della missione ci assista: ci consoli e ci fortifichi; ci renda capaci e trasparenti di una letizia che il mondo può irridere ma che non può rapire.

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