I Santi, compimento delle nostre attese

Omelia nella Messa della solennità di tutti i Santi

Como, Cattedrale, 1 novembre 2001

La fiorita sconfinata che si apre davanti a noi nella festa di tutti i Santi ci riporta il ricordo e la concretezza di tante persone care che sono vissute tra noi e con noi, e sono passate alla compiutezza definitiva dell’abbraccio profondissimo e non più scioglibile con Dio. Lo scenario stupefacente che la liturgia apre davanti alla nostra mente e  al nostro cuore oggi, ha nomi stinti, scialbi, incapaci di dire la vivezza e la felicità che vibrano nelle persone concrete che ricordiamo e ritroviamo: santità, beatitudine, gloria, elezione, vocazione ecc. Sono tutte parole che bisogna riscattare da una certa insignificanza, poiché esattamente nella perfezione cristiana sta il nostro destino e il nostro cominciare la vibrazione della gioia compiuta per sempre.

La festa dei Santi dolcemente ci costringe a riflettere sulla condizione malata in cui ci è dato di vivere: dolcemente ci costringe a partire dalla pienezza di esistenza raggiunta.

Siamo come ghermiti e affondati in una anonimia che rende ciascuno di noi legione e nessuno: ci sembra di essere diversi quando siamo davanti a una persona o a un’altra, quando ci impegniamo in un lavoro che appare destituito di senso, quando siamo quasi costretti a  riconoscere qualche pensiero nascosto, quando gustiamo morbosamente una malinconia greve che ci accascia dentro, perfino quando incontriamo qualche istante di evasione che dovrebbe essere ricreativa e invece si rivela sfibrante. Anonimia. Non abbiamo più un centro e una sintesi delle nostre attitudini. Ci sfugge un modello che ci fa essere veramente noi stessi originalmente. Non sappiamo più chi veramente siamo e chi dobbiamo essere, dal momento che ci lasciamo trascinare da una lezione sconclusionata che vorrebbe imporsi a noi come timbro, come stampo, come schema.

Ci sentiamo individui indistinti dentro una massa. Oh, le sappiamo tutte le lezioni sulla socialità, sulla solidarietà, sulla comunitarietà, sulla fraternità e così via. Non abbiamo mai parlato tanto di dimensione orizzontale del vivere umano come ai nostri tempi. Poi, però, ci si rende pensosi sulla verità delle nostre parole vuote inanellate in  frasi sconnesse, e ci accorgiamo che la solitudine sembra una condizione insuperabile. L'ostilità - la voglia di battaglia, il sospetto almeno – si nasconde in animo in misura insospettata e scatta quando meno lo vorremmo. E c’è un atteggiamento ancor più funesto e disilludente della contrarietà: è l’indifferenza verso chi ci sta accanto, che non vogliamo ascoltare, a cui non vogliamo parlare, e abbiamo quasi disimparato a fissare gli occhi negli occhi e ad avvertirci fratelli. Sembra che l’altro sia sempre un nemico da abbattere o una cosa da rimuovere sul proprio cammino di solitudine. Glia altri non sono l’inferno? Anche perché ci obbligano a essere noi stessi?  L’entrare in rapporto significa lasciarsi leggere dentro e permettere che il fratello emetta su di noi attese che ci rivelano a noi stessi, ma che pure ci sommuovono, e che ci inarcano e ci impongono l’esercizio di una responsabilità. Preferiamo l’affossamento e la quiete del non esistere illusorio: una quiete che è sempre percepita come rimorso, come nostalgia di un ideale abbandonato, come tradimento di una chiamata lasciata cadere nel nulla.

E poi c’è la noia. La noia o il superattivismo che ci impedisca di rientrare in noi stessi e di sentirci in pace e attivi e producenti. Il nulla o la farragine. Il deserto arido e brullo, o il bazar affollato e irritante, dove non vige alcun ordine e lo stesso trovaroba si disperde.

Ed eccoci finalmente alla festa. I Santi ci assicurano che ciascuno di noi è chiamato a diventare uno, dove l’io più profondo attinge allo Spirito e diviene membro del corpo di Cristo. Siamo segnati dal sigillo di Dio e siamo chiamati e siamo realmente figli di Dio. Lambiamo – talvolta sforiamo -  la felicità che ci viene promessa.

E siamo insieme in una misura sorprendente, eppure ciascuno è se stesso. L’unità tra diversi io, che rimangono tali e divengono sempre più delle identità non copiabili: questa unità ci è regalata come il cuore del nostro vivere nel Signore Gesù: e i poveri di spirito si ritrovano nel Regno dei cieli, gli afflitti sono consolati, i miti erediteranno la terra e così via. Diversissimi fino a fare “uno solo” nella comunione molteplice e singolare del mistero di Dio.

E il significato dell’esistenza, altro che noia od ostilità: possiamo passare attraverso la grande tribolazione e venire perseguitati a causa di Cristo, ma l’allegrezza e l’esultanza sono la ricompensa che ci viene anticipata già fin d’ora nella promessa e anche più. E siamo progenie di Dio, ma la gloria che si cela in noi sarà piena quando vedremo Dio così come egli è.

I Santi ci aiutino a diventare persone dalla fisionomia precisa e universale, aperti a una fraternità smisurata e abissale, gioiosi e vivaci nel nostro esistere in Cristo dentro la comunione stupefacente di innumerevoli nostri fratelli la cui vita è già sepolta e rinata nel Signore Gesù oltre il tempo fugace, languido, talvolta perfino perverso. Ma gravida di speranza.

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