La morte: tappa o termine della vita?

Sfogliamo il Nuovo Testamento. «Dio ha stabilito che ogni uomo muoia» e allora «dovrà rendere conto del bene e del male compiuto». Non vi è eccezione: il destino di ciascuno è quello di vedersi troncare la libertà di decidere il proprio destino e di lasciare che il Signore tragga le conseguenze del proprio amore accettato o rifiutato.

Mi metto sul bordo di viale Certosa, quello che porta al Cimitero comunale: motori che rombano e sfrecciano nel traffico cittadino, gonne variopinte al vento, perché la vita è bella - questo è il ritornello - e bisogna spremerla fino alla feccia del piacere. E accanto, lemme lemme e silenzioso, passa il carro funebre per di più mascherato da automobile civile, poiché sembra che ci si sia accordati per non pensare e alludere mai alla morte: e se nei discorsi comuni cade il tema, appare subito una sgarbatezza. Siamo eterni? Mi torna alla mente la novella di Pirandello dove il conduttore del carro funebre ha lasciato il mestiere del cocchiere civile e, per l’abitudine che ha, si avvicina al marciapiede dove un signore impettito cammina verso l’ignoto e si sente invitare: «Signore, vuoi salire? C’è posto».

Non c’è bisogno di molti ragionamenti: la vita, lunga o breve che sia, viene spezzata. E che cosa ci attende, dopo? E perché questa cesura, violenta o dolce, che pone fine alla nostra libertà? O meglio: che libera o imprigiona la nostra libertà?

Già. Poiché si può anche fingere per tutta la vita di giocare al girotondo dei giorni e degli anni. Ma la vita non è un cerchio che ritorna monotonamente su se stesso: è un vettore - se si vuol parlare in termini scientifici - che ha un inizio e ha inevitabilmente un termine. Davvero si tratta di un termine? All’ultimo sospiro, che cosa succede? Si dà un annientamento della persona? Ma la persona è creata e redenta per l’eternità: per una eternità che si rinnova ogni momento.

Ed ecco l’interrogativo sul «dopo» che aiuta a cogliere il senso del morire e del vivere che ne può seguire. È un pensiero che può rivelarsi angoscioso quello di chi intuisce che esiste un termine al costruire il proprio destino in un dialogo di amore con Dio che può essere accolto piangendo di commozione, o rifiutato con rabbia irrivedibile.

Ma come? In un tempo come il nostro, dove tutto sembra essere dominabile, ha ancor senso accennare, sia pure di striscio, o buttare in faccia alla gente il destino eterno di beatitudine o di dannazione? E l’uomo non è fatto per la felicità che gli spot pubblicitari presentano ossessivamente? E che senso ha il peccato in sé e nelle sue conseguenze, quando ciò significa il fallimento della persona?

Ma si ponga che la vita terrena non abbia una conclusione.

La monotonia e una noia mortale non opprime i nostri giorni?

Ricordo una pagina di Gratry, il quale, alla fine delle scuole secondarie, si interroga sul suo domani: professore universitario? Lavoratore della terra? Poeta? E le domande che si ripresentano martellanti: e poi? E poi? Poi giunge un’ora di definitività e si prenderà coscienza di una solitudine disperata a cui si è votati o di una gioia larga come il cielo e splendente, dove ci attende il Signore che ha voluto morire per noi e che, risorto, ci attende a braccia aperte, impaziente.

Ecco il dramma della vita che non può essere cancellato come una banalità, né quando si è in chiesa, né quando si è al supermercato. Il Signore del cielo e della terra, l’Amore senza limiti che si è lasciato affiggere alla croce per noi ci attende.

Uno può anche fingere che tutto ciò sia fola di ritorno da un medioevo terrificante. E invece non si è che davanti al mistero della libertà: della libertà di chi stabilisce il proprio futuro e di chi non può impedire che Dio lo ami immisuratamente come vuole: può tentare di dimenticare questo orizzonte di ambiguità, ma non può impedire che Dio ami. E Dio, nel Signore Gesù, attende almeno una invocazione alla misericordia.

Buona morte. Che significa: buona vita, poiché la gioia che ci attende ha le sue anticipazioni anche nel nostro povero e traballante calendario. San Tommaso parla della grazia di Dio come di «praelibatio vitae aeternae»; c’è bisogno di tradurre?

«Expertus potest credere quid sit Jesum dirigere». C’è bisogno di tradurre?

A partire da queste considerazioni ci si può inoltrare nel mistero del male e della felicità - anche dell’attesa, prima del paradiso -, di cui ancora recentemente il Papa ha parlato nella sua splendida enciclica sulla Speranza. Perché lasciare cadere questi testi di un professore universitario che si fa umile fedele e alunno della Parola divina e fratello della sorte universale degli uomini?

Certo, ci si può anche lamentare perché la Chiesa sembra aver paura di toccare questi temi del destino eterno, e pare taccia per il timore di non essere accolta o per il desiderio di assecondare la direzione del vento della sciatta moda culturale di oggi - se si può parlare di cultura -. Il fatto è che quando il Papa, con lucidità di mistico, e con la semplicità del contadino che sale in cattedra, non dimentica la fatica di vivere; quando anche il Papa parla di questi argomenti, si volge l’attenzione ad altro. E invece, unica è la cosa necessaria nella vita. Chi ricorda il Catechismo sa bene a quali verità si allude. I Novissimi sono sempre certezze attuali e incidenti nella vita di ogni giorno.

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