Correzione e perdono
Per quanto si descriva il lavoro educativo con tinte rosee, la concretezza della vita obbliga a d ammettere che la formazione della personalità del ragazzo, dell’adolescente, del giovane, include anche qualche tappa che potremmo chiamare “ di correzione”.
Sia chiaro: l’impegno formativo raggiunge il suo scopo soprattutto con l’approvazione dell’educando. Ovviamente, quando tale approvazione è meritata. Ma sembra del tutto comprensibile che l’educere – il cavar fuori - dall’intimo della persona i valori più decisivi e determinanti è facilitato dal fatto che colui che riceve l’indicazione formativa viene gratificato da parole e da contatti che mostrano l’approvazione dell’impegno che si sta svolgendo: se si vuole, mostrano la giustezza della orientamento assunto: tanto più quando l’influsso del responsabile maggiore del lavoro educativo giunge quasi al termine: motus in fine velocior, il che è quanto affermare che la perfezione umana e cristiana viene raggiunta sempre più agevolmente quando si avvicina alla perfezione: allora il singolo atto di intelligenza e di libertà ripetuto e approfondito diviene “virtù”: passa, cioè, dallo stadio di possibilità e di orientamento, aspro all’inizio, alla stadio di quasi istintività: la Scolastica più seria ha parlato al riguardo di “deletabiliter operari”, vale a dire di un agire che diventa tanto facilitato, limpido e intenso, da essere congiunto a una sorta di piacere spirituale nel compiere il proprio dovere.
Soprattutto nella fase iniziale dello sforzo autoformativo è da prevedere qualche smarginatura rispetto alla direzione che si è presa. Ciò sia detto senza sottacere il fatto che degli “sbreghi” possano registrarsi anche più avanti nella strada educativa: una strada che è chiamata a durare tutta la vita.
Si tenga presente che il comando orientato alla formazione della persona non si modula come una costrizione. L’influsso educativo riesce, poco più poco meno, quando coglie l’educando in quel centro lucido e decisionale di se stesso, che è la libertà. La totalità unitaria della persona e i suoi vari aspetti caratteriali non si impongono dall’esterno, né si maturano con la sola ripetizione. La ripetizione sa cavare dei pensieri e dei comportamenti che non si possono bloccare. Lo scatto della libera decisione fa si che la persona si autodetermini in un senso o nell’altro e così cresce nella sua capacità di agire.
Affidata alla libertà, oltre che all’influsso dell’educatore, è abbastanza prevedibile che colui che viene formato anche se si lascia docilmente plasmare, incontrerà deviazioni o intoppi. Si pone qui il problema della correzione. Stante il fatto che l’educazione non è un procedere meccanico e necessario, esso va via rettificato secondo un disegno che è inscritto nell’essere della persona chiamata ad agire sul piano creaturale e sul piano soprannaturale. Si preferisce parlare di correzione, piuttosto che castigo o di punizione. Il castigo ha in sé un aspetto vendicativo che mette l’io personale in un atteggiamento di difesa e di reazione: non induce a crescere; sospinge piuttosto a una resistenza dovuta a una mancanza di fiducia che non può essere piantata dall’esterno. La punizione in qualche modo si chiude su se stessa e induce il soggetto a opporsi a qualsiasi sollecitazione verso una crescita autentica. Se si vuol essere concreti fino alla banalità: possono anche non mancare momenti educativi che provocano sofferenza; purchè lascino aperto o allarghino uno spazio di intesa tra chi offre una proposta di vita e chi la riceve. Se si vuole, a questo riguardo si può parlare di dialogo formativo: purchè tale dialogo, dopo un confronto leale e cordiale, giunga a una decisione e non si soffermi su un gioco di pendolo che si arresti a essere gioco a se stesso: allora non si entrerebbe nel campo educativo, ma ci si soffermerebbe su un una specie di rimando continuo che non conclude mai l’operazione o il gioco.
L’insistenza sulla serietà dell’intervento formativo va sottolineata in modo particolare nel nostro tempo, quando si tende a eliminare qualsiasi disuguaglianza tra l’educatore e l’educando. Occorre pure che uno dei due soggetti possa avere il diritto all’ultima parola - quella determinante – non certo in base a una capacità indiscussa, ma in nome di un’esperienza compiuta lungo la vita e – perché no? – gli sbagli fatti: sbagli dei quali la memoria trattiene l’insegnamento e abilita al loro superamento.
La disciplina educativa, perciò, si esprime anche in una correzione severa e buona: severa perché si mostra intransigente nei confronti dell’atto; buona perché lascia la possibilità di una ripresa incessante che viene attesa dall’educatore con una fiducia che non si sfianca e non si chiude sulla libertà dell’altro. E si è così alla soglia del perdono in termini globalmente umani e soprattutto cristiani.
Perdono. Che non è il dimenticare o il fingere che non sia avvenuto nessuno sbaglio. L’errore va riconosciuto in modo leale, se non severo; quando, però, chi ha sbagliato si dichiara pronto a presentare le proprie scuse e a rivedere il proprio comportamento, la correzione diviene perdono. E l’impresa educativa, a questo punto, ricomincia con l’accoglienza reciproca dell’educatore e dell’educando e lo schema della vita buona che viene elaborato e messo in atto.