"La morte è nelle mani di Dio e non di noi preti"

Maggiolini risponde da un letto d'ospedale a Don Verzé: «Quando stacchi la spina non spegni una macchina ma la vita di un uomo»

 

«Primo piano. La stanza è la 113. Faccia gli scongiuri. La aspetto tra un'ora». Nel corrido­io si sentono solo i passi di una suora. L'ospedale è il Valduce di Como. Monsignor Alessan­dro Maggiolini è qui. La stanza è appunto quella. Un'infermie­ra sta uscendo dalla porta. So­no le sei, ma si mangia presto. Maggiolini sorride, la malattia non si vede. E dentro. L'anello episcopale fa un effetto strano sul quel corpo senza porpora. II pigiama è azzurro. L'uomo ha messo da parte il vescovo. Sul letto c'è un computer portatile. «Stavo scrivendo», dice. Fogli e libri sparsi. qualche giornale. Uno è aperto a pagina venti­quattro. Maggiolini legge le pa­role di Don Verzé: «Staccai la spina per lasciar morire un ami­co». Non appare sorpreso. «Ec­coci qua. In ospedale. lo allunga­to su un letto e lei seduto a parla­re di eutanasia. Non faccia scherzi, mi raccomando». Pro­messo

 

Cosa ne pensa?

«Di cosa».

 

Delle parole di Don Verzé.

«Ah, pensavo della sua promes­sa. Un prete prima di parlare do­vrebbe riflettere tre volte. Una per intuire, una per ragionare, la terza per esprimere il suo pensiero che, bene o male, poco o tanto, è un aspetto non margi­nale della sua missione. Le paro­le e i pensieri hanno un peso, soprattutto se si dirige un istitu­to, una clinica, rinomata a livel­lo internazionale come il San Raffaele. Don Verzé in questo caso ha pensato una volta so­la».

 

Don Verzé dice: «Se una perso­na vive così, solo grazie alle macchine, e chiede lucidamen­te di staccare la spina, credo che farlo possa essere un atto d'amore, un gesto cristiano».

«Mi spiace per Don Verzé, ma staccare la spina significa stac­carla a colui che sta attaccato alla macchina. Non so se sono stato chiaro. Collegata alla mac­china c'è la vita di un uomo. Non è un particolare di poco conto».

 

Certo, ma se quell'uomo ti di­ce: basta, non ce la faccio più, voglio morire. Lei che fa? E che differenza c'è tra «far mo­rire» e «lasciar morire»?

«Quando qualcuno invoca l'eu­tanasia sta chiedendo di tener­gli la mano. Vuole che gli si acca­rezzi la fronte, gli si asciughi il sudore. Vuole che gli si dicano quelle poche parole che conta­no per varcare la soglia dell'aldi­là. Dietro l'eutanasia c'è un desi­derio di solitudine».

 

Monsignore, lei si sente solo?

«In questo momento no».

 

Ma ha mai pensato al giorno in cui il dolore diventa insosteni­bile, quando la morfina non fa più effetto, quando la vita è non vita?

«È chiaro che ci penso. E prego che il Signore non mi faccia arri­vare a tanto. Dopo di che mi ri­metto al suo volere. Ma gli stessi medici ormai dicono che il dolo­re non è più un grande proble­ma. Ci sono tanti analgesici e le assicuro che funzionano».

 

È vero. Non c'è solo il dolore. C'è, appunto, anche la vita che non è più vita. Troppo pesan­te, senza speranza, in cui tutto quello che ti rimane è affidarti a una macchina. C'è anche questo.

«Non ci affidiamo a una macchi­na, ma a qualcuno di cui ci fidia­mo. La mia vita non la gestisco io. E’ come l'utero delle donne. Se si lascia che le donne si gesti­scano l'utero diventa un bel pa­sticcio».

 

Parole forti. Ecco perché l’accusano di essere un Vescovo tradizionalista.

«Sono tradizionalista. Ma non reazionario. I reazionari sono quelli che restano sempre indietro, io invece voglio andare avanti».

 

Ha sentito parlare del caso Welby?

«Più o meno».

 

Ha scritto una lettera a Napolitano per portare la discussio­ne sulla morte assistita al cen­tro del dibattito politico e par­lamentare.

«Discutere? Ma cosa c'entra il presidente della Repubblica? Non è né un medico né un pre­te. Non spetta a lui discutere di vita e di morte. Spetta a Dio. Non è il caso che si metta a fare il chierichetto nella messa laici­sta dell'eutanasia. Non faccia né il becchino né il consolato­re».

 

Ha paura di morire?

«Io si. E lei?»

 

Qualche volta.

«Sì, ho paura. Ho paura perché di là incontro il giudizio divino, il crocifisso che ti perdona se ti lasci perdonare. Ho paura per­ché morire li costringe all'incon­tro inevitabile con un dolore. Un dolore che in vita provi una sola e unica volta. Certo, se poi uno non crede, può puntare la canna di una rivoltella alla tem­pia e illudersi di aver risolto tut­ti i problemi».

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