La cronaca l’aveva convenzionalmente chiamata Maria per tutelarla nel riserbo della sua intenzione. Era una donna di sessantadue anni, originaria di Agrigento, con un piede in cancrena che minacciava la setticemia, e dunque annunciava senza tanti convenevoli la morte non troppo lontana. Si proponeva l’amputazione dell’arto. La malata si era decisamente opposta, confortata nella sua intenzione da due analisi, una psichiatrica e un’altra psicologica, che attestavano la sua capacità di intendere e di volere. La signora Maria è morta qualche giorno fa.

         Si è discusso molto sulla possibilità che i medici rimanessero osservatori impotenti a intervenire, di fronte alla volontà decisa della donna. La legge civile non può permettere l’uccisione diretta di una persona: la cosiddetta eutanasia attiva. E, però, non stabilisce in ogni particolare ciò che i sanitari devono fare quando un infermo rifiuta le terapie che pur lo salverebbero. Ultimamente vale la libertà del paziente stesso: libertà che dev’essere rispettata sino alle estreme conseguenze.

         Diversa è la riflessione che si può articolare dal punto di vista etico. E si precisi: sotto il profilo oggettivo. Il rifiuto della amputazione del piede è stato imposto per una sorta di culto di un corpo perfetto? Cioè, per una sorta di incapacità a sostenere una menomazione che avrebbe inciso sulla armonia compiuta del corpo? Oppure: magari con un giudizio pessimistico, la donna ha ritenuto di non avere più nulla da dare a coloro che le stavano accanto? E’ difficile stabilire quando si diventa davvero inutili o di intralcio a coloro che vivono gomito a gomito. Oppure: la paziente non ha accettato la sofferenza dell’operazione chirurgica e delle conseguenze perché non ha colto il valore salvifico e pedagogico della sofferenza?

         E’ difficile rispondere a questi – e a simili – interrogativi. I medici del S. Paolo di Milano, i parenti e gli amici hanno dovuto accettare la decisione di Maria. La quale decisione si pianta come un interrogativo nell’animo di ciascuno di noi. Forse i credenti recano sul tappeto troppo disinvoltamente il discorso del dolore redentivo. Forse con eccessiva facilità – vedendo le cose dall’esterno – si parla di aiuto che anche un malato può dare a coloro che gli stanno accanto, e di relativa perfezione del corpo anche senza un piede: non si potrà fare la corsa a ostacoli, ma si possono svolgere le funzioni fondamentali di una donna di casa.

         Alla fine, credenti e non credenti – pur nella diversità di accentuazioni nella valutazione del caso –, devono chinare il capo davanti a una libertà che sceglie il proprio destino. Di queste e simili cose bisognerebbe parlare prima che diventino attuali per la persona interessata.

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