A un dipresso cade in questi giorni il centenario di un documento di S. Pio X che proibiva le canzonette e le arie operistiche e invitava riprendere il canto gregoriano nelle celebrazioni liturgiche, specie durante la Messa. Cade anche il quarantennio della promulgazione della Costituzione sulla riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II. Che dire? Forse il giudizio circa l’applicazione di queste direttive è ancora intempestivo. Occorrono tempi lunghi per interpretare le attese più autentiche e profonde del popolo cristiano. Né basta il tono enfatico e un po’ vuoto di chi esalta l’utilizzazione della lingua volgare, si entusiasma per l’abbondante presenza della Bibbia nei riti della Chiesa, si compiace di una liturgia più vicina ai gusti della gente e così via.

        Una valutazione documentata e saggia risulta impervia. Anche perché molti credenti attuali non hanno né potuto gustare le celebrazioni austere ed eleganti – di stile benedettino – della prima metà del secolo scorso, né si sono sentiti prepotentemente attratti e coinvolti da una sacralità in gran parte perduta, che ha finito per copiare, spesso senza accorgersene, spettacoli televisivi, arcigni o frivoli che fossero.

        Qualche esempio. La Scrittura. Già essa è difficile da interpretare e da capire, soprattutto se seguìta da prediche che sembrano dotte – chissà – lezioni di esegesi le quali non consegnano uno straccio di idea e lasciano freddo il cuore; o sono occasioni per puntate politiche, operaistiche, terzomondistiche – ideologiche spesso – le quali magari tirano il sacro testo per i capelli; o sono semplicemente lunghe e noiose tiritere: divagazioni che nulla o quasi hanno a che fare con Gesù Cristo.

        Ancora. I canti. Che spesso sono lagne o ballabili che poco han da spartire con la preghiera. Qualche eccezione non guasta.

        Ancora. Gli attori del rito. Laici talvolta improvvisati che ignorano teologia e catechismo. O, più frequentemente, preti che, dopo aver tanto perorato la promozione del laicato, si comportano da padroni del rito. Macché norme ecclesiali. Ciò che importa è la spontaneità. E una Messa cambia molto se il celebrante ha digerito bene o no, se è euforico o depresso, se è in vena di lisciate o di invettive ecc. Qualcosa come degli happening. I praticanti hanno il diritto di sapere quanto duri una cerimonia e che cosa li attenda, se vi partecipano.

 

        Ancora. Il silenzio. Si riesce a creare un clima di mistero – e a pregare -  se l’accavallarsi delle didascalie, dei gesti, delle formule recitate al galoppo non lasciano un istante di silenzio in cui uno che vuole sia se stesso davanti al suo Signore?

        Si potrebbe analizzare a lungo. Avendo anche un poco di pietà per noi sacerdoti che abbiamo dovuto improvvisarci attori, registi, direttori di cappella ecc. quasi da un giorno all’altro. Ma i “semplici” fedeli sanno di avere, anche in liturgia, diritti da far valere? Meglio se con garbo.

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