Tre notizie messe in fila sulla scuola italiana. La prima è l'approvazione della riforma Moratti. Bene o male è arrivata in porto. Si può discutere sull'anticipo della possibilità di iscrizione a due anni e mezzo, sul breve periodo concesso per la scelta del tipo di istruzione o di formazione secondaria - con eventuale mutamento -, sulla necessaria cultura di fondo da trasmettere eccetera. Ma la legge adesso vige con tutti i crismi. Non si tratta di qualcosa di simile alla riforma Gentile. Ma era possibile - è opportuna? - una impostazione analoga con la frammentazione attuale dei saperi e con la preoccupazione di infilarsi subito o quasi nell'ambiente di lavoro da parte di molti giovani?
       La seconda notizia è stata data male, ma anche corretta, costringe a riflettere. Tempo fa si era detto che l'Università Bocconi per iscrivere gli alunni non avrebbe tenuto conto dell'esito dell'esame di maturità. Il che equivaleva a una negazione di ogni stima nei confronti della scuola italiana, statale o privata, almeno nel tratto suo più prossimo all'università. Poi, per la verità, il rettore Carlo Secchi mise i puntini sulle «i». Precisò che i test psicoattitudinali e culturali di ammissione avrebbero tenuto conto degli anni antecedenti la maturità; che la prova finale dello studente medio sarebbe stata condizione necessaria per l'ingresso in università, ma che la condizione sufficiente sarebbe invece stata un vaglio ulteriore: una selezione cioè che faccia riferimento a criteri rigorosi di conoscenza e di attitudini, coerente con la capacità di offerta formativa dell'ateneo di approdo.
       Il che non era proprio una liquidazione totale della scuola italiana almeno da parte della Bocconi, ma una notevole sottostima la lasciava trasparire. Con il rischio di applicazione della decisione da parte di altre università. Con il rischio, forse, di screditamento, se non proprio di abolizione, del valore legale e sindacale del diploma di maturità. Se si eccettuano i casi di assunzione in posti di servizio statale o analogo - per coerenza -; se non si intende caricare oltre misura la rilevanza degli esami di Stato dopo la laurea.
       Terza notizia. A partire dal 1997 l'Italia inizia a tener conto e perfino a organizzare momenti di controllo circa l'efficacia del proprio sistema scolastico a paragone di quelli di altre nazioni: almeno quando gli alunni raggiungono il quindicesimo anno di età. Che non è la conclusione della scuola dell'obbligo, ma vi si avvicina un poco. Ebbene, nel 2001 gli studenti italiani, in un confronto tra 32 Paesi, risultano ventunesimi nelle competenze di letture di testi non specialistici, ventitreesimi nella comprensione di testi di carattere scientifico, ventiseiesimi se il testo proposto è di tipo matematico; solo il cinque per cento si colloca nella fascia alta e quasi il venti per cento non raggiunge la soglia della sufficienza. (Cavo questi dati dall'ultimo numero de «Il Mulino»).
       Due commenti telegrafici. Attenzione: se si apre l'Ue e oltre al confronto del rendimento scolastico in vista dell'università o/e della professione, ci si potrebbe trovare di fronte a sgradevoli sorprese. Attenzione: dopo la depressione della scuola italiana lontanamente registrabile a partire dalla fine degli anni Sessanta - e continuata in ritmo crescente -, si profila il rischio che siano gli alunni a esigere maggiore serietà negli studi. A meno di procedere agli accessi accademici e professionali per appartenenze politiche e per raccomandazioni. Ma fino a quando?

Instagram
Powered by OrdaSoft!