Sono spiacente. Intervengo ancora sugli immigrati, specialmente musulmani. Il motivo? Trovo anche su riviste scientifiche o di alta divulgazione il disinvolto giudizio secondo cui l’episcopato italiano sarebbe una sorta di pollaio dove ciascuno degli ospiti starnazza a modo suo. Ora, non giuro che tra noi vescovi, sull'argomento preciso, ci sia perfetta identità di vedute. Non siamo cloni. E tuttavia, la questione è forse un poco più complessa.

Procedo distinguendo. E’ l’unica maniera che conosco, per non confondere.

  • Un vescovo è un cittadino come gli altri. Egli, perciò, deve avere idee chiare - quanto riesce - sul fenomeno immigratorio. Il quale include vari aspetti, a) Occorrono persone che si prestino a svolgere lavori che i nostri operai non accettano più. (E si includa anche la faccenda della pensione da assicurare a chi ne ha diritto), b) C’è chi sembra desiderare di aver bisogno di poveri per raggiungere una qualche forza contrattuale (centinaia di migliaia, ormai), c) Tra gli immigrati, soprattutto clandestini, si rinvengono in proporzione maggiore rispetto alla popolazione locale delinquenti assicurati o da assicurare alla giustizia, d) Pare logico, da un punto di vista strettamente laico, preferire che approdino in Italia persone che, a parità di indigenza, non ci costringano a rivedere le norme fondamentali della convivenza civile: giornate di riposo settimanale, momenti di preghiera, poligamia, non rispetto della donna, democrazia, reciprocità di trattamento ecc. Si noti: le ragioni di disagio sono di origine religiosa, ma vengono considerate a prescindere dal fatto religioso stesso: sono viste come costumanze civili: laiche cioè.
  • Un vescovo è chiamato a essere uomo di carità. Perciò di diritto-dovere è presidente della Caritas diocesana. In quanto tale, egli, con la collaborazione di credenti disponibili, a) farà ciò che potrà per aiutare chi viene tra noi e non ha mezzi di sussistenza; b) nello svolgimento di questa mansione non discriminerà né in base al tipo di fede, né in base alla cultura di cui è portatore l’immigrato: aiuterà chi ha fame, ha freddo, non ha da dormire, è senza lavoro ecc., per il solo fatto che ha bisogno (e rappresenta il Signore alla luce della fede); c) esorterà i credenti a un’accoglienza sempre più ampia e cordiale anche se vedrà che i credenti medesimi svolgono - a modo di supplenza - una funzione che è propria dello Stato e tamponano una falla creata dallo Stato (spesso senza neppure essere ringraziati); in quanto presidente della Caritas si proibirà di risolvere problemi come quello dell’identità culturale nazionale.
  • Un vescovo si presume sia anche un uomo di fede. Perciò si impegnerà in uno sforzo per evangelizzare e convertire i nuovi venuti: se ci riesce con l’aiuto di Dio; e se gli immigrati si lasciano smuovere nelle loro convinzioni e comportamenti religiosi. Si badi: questa terza incombenza è la più importante, per uno che ritiene che Gesù Cristo sia l’unico salvatore di tutti. (Non si dimentichi che, in Italia i convertiti dal cristianesimo all’islam in questi ultimi anni sono più di cinquantamila).

Dopo di che, forse si può intrawedere una diversità di accentuazioni. Se un vescovo sottolinea il punto 1) - la politica -, verrà giudicato uomo di parte, mentre è semplicemente un cittadino che magari vede chiaro e prima di altri. Se sottolinea il punto 2) - la carità -, sarà spesso compatito o disprezzato come un collaborazionista di un governo improvvido o un responsabile di disordini che si potrebbero evitare. Il punto 3) non interessa pressoché nessuno.

Forse, noi vescovi dovremmo stabilire una segnaletica per farci capire in quale veste parliamo. Un poco come quando uno si lascia sfuggire una battuta umoristica in un discorso: metta il cartellino appropriato, se non vuole incappare in guai.

Ammazzarli o subirli 'sti vescovi complicati. E semplicissimi. Senza intrupparli, mettendoli in fila come oche.

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