Via via arrivano nelle aule dei tribunali fatti incresciosi che hanno scosso la pubblica opinione. Un ragazzino che a scuola uccide la fidanzatina, un adolescente e la compagna del momento i quali in casa massacrano la mamma e il fratellino di lei, tre fanciulle che in un vialetto fuori mano maciullano una suorina chiamata fuori di convento con una sbiadita e feroce bugia eccetera, e ogni volta si ripropone la questione: giustizia o perdono? I custodi dell'ordine a ogni costo si schierano per una pena vendicativa senza sconti. I pacifisti e diversi cristiani, un poco unilaterali, vorrebbero che si lasciassero liberi i colpevoli - quando fossero giudicati davvero tali - come se nulla fosse accaduto. Di mezzo si colloca spesso anche la psichiatria che emette perizie singolari: per esempio un matricida dovrebbe noti essere più pericoloso, perché di mamma ce n'è una sola. Et similia.
Intanto va detto che possono nuocere alla convivenza civile non solo i criminali ma anche gli psicopatici. Da curare, dunque. E da mettere in condizione di non fare del male. È il minimo che si possa chiedere.
C'è, poi, la faccenda del Vangelo il quale esige che si porga anche l'altra guancia, invece di punire. Qui suggerirei di non galoppare troppo in una qualche forma di fondamentalismo. Se si imponesse d'imperio lo stile ritenuto evangelico del passare sopra i torti ricevuti, la convivenza civile andrebbe a farsi benedire. Delinquete fortemente, perché, tanto, sarete non solo assolti, ma trattati e ritenuti come innocenti. Un buonismo eccessivo finirebbe per diventare incitamento - licenza almeno - alla trasgressione pure più violenta nella convivenza civile. Senza contare l'imposizione di una legge che la maggioranza dei cittadini potrebbe anche rifiutare.
Ed ecco il problema alla radice. Si ponga pure che la giustizia umana non abbia una finalità unicamente punitiva. (Ma, santo cielo, qualche pentimento sarà pur necessario: è una condizione che aiuti a giungere al dolore per il male compiuto). Si ammetta pure che la giustizia umana non esiga se non la riabilitazione del reo. Anche in questo caso si impone qualche pena: una pena adeguata alla riconquista della propria dignità da parte del colpevole. Non si vede perché mai si debba assolvere anche dal dovere di riparare: il padre o la madre rimasti, per esempio, non hanno qualche diritto a essere aiutati a tirar su ciò che rimane di una famiglia distrutta? 1 tigli da educare e da sostenere nello studio, una preparazione e una ricerca del lavoro, eccetera.
Ma l'amore al nemico non porta a noti chiedere la pena riabilitativa, al contrario. Proprio perché si vuole il bene dell'altro che ha offeso e fatto soffrire, si deve esigere che l'altro abbia modo di rieducarsi con una serietà corrispondente al danno provocato. L'ideale sarebbe che proprio il reo, sentendo si voluto bene, non solo accettasse ma chiedesse, invocasse, una sofferenza capace di ridargli onore e di restituirlo alla situazione primitiva. In certo senso, proprio il perdono esige la pena: suscita, cioè, il desiderio del riacquisto di una dignità perduta. Paradossalmente, proprio un qualche buonismo che finga l'innocenza del colpevole si rivela irrispettoso del colpevole stesso al quale si vuole usare misericordia.
E i cristiani non siano troppo inclini ad assegnare ad altri degli imperativi che essi medesimi magari riescono a stento ad attuare. Facile dire perdono, quando non si è toccati sul vivo, quando si danno consigli rancidi a chi soffre; quando si diviene disumani per essere evangelici. Ma va!