Omelia nella Messa di Natale

Como, Cattedrale, 25 dicembre 1992

 

Stanotte ci è stato descritto in Natale nella sua esteriorità semplice e vivace: il bimbo che nasce in una grotta, la chiamata dei pastori, il coro degli angeli e così via.

Stamattina, nella Messa del giorno, la Liturgia ci propone un brano impervio e sublime del Vangelo di Giovanni. D mistero del Natale è qui considerato nei suoi tratti essenziali come in un poema drammatico ed esaltante.

Ne vediamo tre atti, caratterizzati da tre parole che vanno scoperte nel loro significato più recondito: le “tenebre”, il “non riconoscimento” e l’“accoglienza”.

 

1. Le tenebre descrivono il mondo in cui Dio viene.

È il persistere della guerra in varie zone della Terra. È il premere di una mentalità che non rispetta e fa scempio della vita. È il consolidarsi di una pretesa che si fissa sul piacere immediato, ma che vuole rimanere episodica, frammentaria, capricciosa. È il peccato sociale di civiltà e di culture che si chiudono su se stesse e vogliono far senza di Dio.

Occorre scandagliare anche l’intimo dell’animo umano. Tenebre sono le cattive tendenze che rechiamo nel cuore appesantito.

Sono le scelte in cui la nostra libertà si è eretta contro la santa e dolce volontà di Dio. Sono le ribellioni per cui il nostro potere di decidere ha messo Dio alla porta e ha tentato un’autonomia assoluta. Sono le dimissioni per cui abbiamo rinunciato a condurre la nostra barca e ci siamo lasciati trascinare dalla corrente senza senso fino alla palude.

Si sogna un Sirifo felice. Si fabula di un Prometeo svincolato dalle catene. Si vagheggia un Superuomo che canta i suoi trionfi. E, invece, si scopre mestizia, disperazione, inutilità, inanità, voglia di nulla.

Chi ci libererà da questa condizione di morte?

Non saremo certo noi a redimerci con le sole nostre forze. Al termine dei nostri conati, saremo costretti a registrare il fallimento più deprimente. La salvezza ci viene da altrove, da un Altro. “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Senza che noi lo invocassimo. Avendolo noi invocato, ma in forza del suo aiuto preveniente.

 

2. Inoltre: “Venne tra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto”.

Non si tratta soltanto di coloro che non hanno conosciuto Dio e hanno rifiutato il suo mistero. Qui c’è assai di più: c’è il fatto che il Verbo si è donato a noi fino a farci “suoi”, ma noi l’abbiamo respinto.

Ci siamo impegnati in una ribellione senza logica e senza amore per divenire illusori assoluti, per stabilire ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è buono e ciò che è cattivo: per essere misura del tutto, mentre siamo misurati da Dio per la nostra felicità. O ci siamo rassegnati in una derelizione che si ripiega su se stessa e non trova più il coraggio di domandare perdono e di alzare la testa per riacquistare la dignità che ci viene offerta.

Il rischio è di divenire insensibili al richiamo di Dio. Ma, forse permane sempre un pungolo di rimorso che ci attrae verso la tenerezza perdonante di Dio.

Comunque, nella nostra riluttanza, possiamo volere che Dio non sia il Dio della dolcezza, il Dio della benevolenza, il Dio del perdono e del rinnovamento della vita. Possiamo volere perfino che Dio non esista. Ebbene, egli rimane a nostra dannazione o redenzione; rimane come è: la condiscendenza infinita che si lascia mettere alla porta e buttar fuori dalla vita, o che viene nel nostro intimo e tra noi. Basta che gli apriamo la porta dell'anima.

 

3. “A quanti, però, l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”.

Il credere, l’affidarsi totalmente — intelligenza, volontà, sentimento, corpo —: il credere è l’aprirci a Dio come egli chiede. Ed è decisione che salva.

Lo Spirito inizia — o riinizia — a esistere nel nostro intimo e ci unisce al Verbo, Figlio di Dio incarnato, facendoci fratelli tra noi e figli del Padre.

E la vita nuova che si sostanzia di grazia e di verità.

Natale segna l’inizio di questa familiarità con Dio: un inizio che non si concluderà più, poiché anche oltre il tempo la comunione beatificante persisterà. Il Verbo si è incarnato una volta per sempre. È morto e risorto per sempre. Per sempre è causa della nostra salvezza.

Da questa conformazione a Cristo giunge a noi la gioia e la speranza che nella Chiesa siamo chiamati a sperimentare e che a tutti siamo invitati ad annunciare e a donare.

C’è chi si irrita per un qualche monopolio della speranza, che la Chiesa sembra possedere. Non è monopolio, ma fonte da cui derivano tutti i germi evangelici disseminati nella storia. E non si tratta soltanto di speranza. Con la cognizione saporosa di Dio, la fede ci dà anche un senso morale che guida 1’esistenza e che spiega gli impegni di santità a cui siamo sospinti.

Così la Chiesa, in cui Cristo abita, diviene comunione con Dio e tra noi, e strumento perché vi siano ragioni per vivere.

Siamo incaricati della verità, della giustizia e della letizia del mondo.

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