Giornata Mondiale per la Pace

Omelia nella Messa in occasione della Giornata Mondiale per la pace

Como, Cattedrale, 1 gennaio 1990

 

Celebriamo, oggi, all’aprirsi del nuovo anno, la “Giornata della Pace”, istituita dall’indimenticabile, acutissimo e sensibilissimo Paolo VI, e proseguita da Giovanni Paolo II con affabile determinazione.

Forse, prima ancora di prender tra mano il “messaggio” del Papa, avvertiamo l’esigenza di chiarirci le idee di fondo sulla pace. Troppi equivoci corrono. Troppe voci gridano “pace, pace; e pace non c’è”. Troppe volte immaginiamo la pace come compito di “altri”: un compito a cui vogliamo sottrarci con premura. Si può giungere perfino a instaurare una sorda ostilità o una guerra cieca per aver ragione in una discussione sulla pace, o per imporre, violentemente o subdolamente, una pace che è progetto disumanizzante: dittatoriale o individualistico, non importa.

Le ambiguità

Sembra utile, introduttivamente, di sforzarci per liberare un poco il terreno da ambiguità che disturbano la riflessione o bloccano o sviano l’impegno.

La pace non è qualcosa di distinto o separato dai nostri sforzi e da noi stessi. Non è una sorta di “paese dei balocchi”, estraneo alla nostra storia, il quale ci verrebbe concesso non si sa da chi o da quale forza anonima, o da presunte “leggi” di una evoluzione necessaria o di un progresso deterministico e inarrestabile. Son svaniti da tempo questi sogni.

La pace non è neppure l’esito violento o idilliaco — insuperabile — di un impegno rivoluzionario o revisionistico dell’uomo: un esito che si porrebbe come definitivo, irrevedibile e pienamente gratificante. Simili allucinazioni erano proprie di ideologie che consideravano la lotta come “levatrice della storia”. Possono anche essere candide aspirazioni di un pragmatismo individualistico ed efficientistico non meno ideologico. Forse più attuale.

Il fatto è che il “mito dell’innocenza” dell’uomo contemporaneo come il “mito dell’uomo nuovo da formare”, non tengono presente la condizione concreta dell’uomo simpliciter, incline all’egoismo e alla sopraffazione e orientato a superarsi in Dio.

La pace non è neppure la stasi del terrore, dovuto al possibile uso di armi catastrofiche e alla possibile ritorsione. Così come non è il livellamento o l’omologazione di ogni personalità dentro schemi preconcetti, i quali ignorerebbero l’originalità dell’essere pensante e libero che è l’uomo. Qui si sarebbe al tacitiano “Desertum faciunt et pacem appellant”.

Per la verità, in chiave cristiana, occorre dire che la pace, nella fase della vita terrena, non coincide neanche con i “cieli nuovi e la terra nuova”, con le “lacrime asciugate”, l’“uomo perfetto” e la “comunione beatificante” che il Signore prepara nell’aldilà a chi lo accoglie con cuore sincero.

Non pare giusto scambiare date, collocando nella storia l’escatologia compiuta. Simili confusioni non sono esenti da rischi.
La pace dei nostri giorni tormentati ed esaltanti va invocata da Dio e costruita con i nostri sforzi a partire dalla miseria che sentiamo gravare sui nostri cuori e dalla speranza e dalla passione che il Signore ci infonde.

Giustizia e pace

Perciò la pace che potremo raggiungere qui — sempre precaria, sempre limitata, sempre da rifare e da perfezionare — è, al tempo stesso, un dono e una conquista: un dono sempre da chiedere nella conversione del cuore, e una conquista da attuare attraverso la giustizia. “Opus iustitiae, pax”. Non si dà pace come valore a sè stante. La pace esige la responsabilità per cui si attuino i diritti di tutti, e ciascuno si disponga ad attuare i propri doveri.

Più che a una tecnica, ci si trova di fronte a una questione morale: alla questione morale per eccellenza e a raggio universale.

Se si pone — come si deve — il problema sul piano etico, risalta subito evidente che occorre stabilire quali valori umani sono da salvare e da promuovere. E con quale priorità.

La pace presuppone e/o esige, certo, un’equa distribuzione dei beni. Ma non può essere ridotta a una situazione economica ideale, pur sempre da raggiungere.

La pace presuppone, inoltre, un’uguaglianza di diritti politici. Ma non può limitarsi a riconoscere il cittadino, senza considerare l’uomo, magari limitandosi a enunciare dei princìpi, senza agire per renderli esercitabili da parte di tutti. Si pensi al diritto al lavoro, alla casa, alla partecipazione alle decisioni comuni, ecc. Si pensi al diritto a vivere in un mondo il meno possibile contaminato.

Qui si pone il problema di una sana ecologia che non escluda l’uomo e che non sia l’esito di una paura egoistica, ma frutto del rispetto della “razionalità” delle cose create e della persona nel suo essere. Si pensi, assai prima, semplicemente al diritto a vivere e a non essere ingiustamente manipolato anche da parte di chi non dispone della forza per far valere le proprie legittime esigenze.

La pace presuppone, soprattutto, un’affermazione e un consentimento della fruizione dei diritti sociali, quali la libertà di informazione e di critica, la libertà di pensiero e di espressione del pensiero, la libertà di seguire quella che si ritiene essere la propria vocazione, di formarsi una famiglia o di consacrarsi a Dio, e di essere tutelati nell’osservanza della stabilità della scelta, la libertà di educazione dei figli secondo le vedute dei genitori, la libertà di educazione culturale e di aggregazione in nome di componenti culturali, e particolarmente il diritto alla libertà religiosa che è come la somma e il centro del riconoscimento della dignità della persona.

Se la pace ha tale vastità di orizzonti e profondità di esigenze, essa richiede — come si diceva — l’impegno di tutti e di ciascuno. Essa coincide con l’ordine morale che ogni uomo attua in se stesso e che esprime nella convivenza civile e nelle istituzioni: un ordine morale che non raggiunge mai la propria pienezza ed è sempre in via di attuazione.

Il dialogo, la testimonianza e la profezia si profilano così come le autentiche vie della pace.

Il dialogo, la prima via, non è l’arte di confondere le idee o l’annoiato discorrere tra scettici e cinici, ma il confrontarsi di convinzioni e di fisionomie umane per aprirsi all’accoglienza della verità, ovunque si trovi, nel pieno rispetto della persona; e per aprirsi all’assunzione di impegni conseguenti. Non è possibile abbandonare le proprie certezze fondamentali o transigere sulla ricerca della verità, pur di raggiungere una quiete che non sarebbe pace, ma disinteresse per sè e per gli altri.

La testimonianza, la seconda via della pace, si riferisce innanzitutto alla proposta di elementi religiosi, ma concerne anche l’offerta di modelli umani di vite riuscite e di sane collaborazioni. Il mondo contemporaneo ha bisogno di maestri o di ricercatori della verità, ma anche di modelli di vita. Qualcuno deve pure iniziare.

V’è, poi, la profezia come terzo cammino della pace.

La profezia — che pure non può valutare aprioristicamente in negativo l’autorità — non è né eccentricità, né posa, né pretesa. Fosse così, magari inconsapevolmente, farebbe sopruso agli altri, imponendo loro di rinunciare a legittime attese.

La profezia è, piuttosto, un pagar di persona al servizio del prossimo a modo di non-violenza attiva. La profezia, in più di una caso aspra e scomoda, diviene accoglibile, magari a fatica, quando è realistica e acuta, e non si esime dal riconoscere e dall’accettare con pazienza e costanza la situazione in cui agisce: essa agisce quasi per contagio, nei casi migliori e, comunque, sempre per stima meritata. La profezia non si rifiuta di subire incomprensioni, irrisioni e perfino persecuzioni, senza, tuttavia, andarle a cercare; soprattutto senza inventare queste e altre difficoltà.

Va da sè che, per un credente, il cristianesimo reca un apporto originale alla causa della pace: non foss’altro che per la presenza, nel mondo, della Chiesa, la quale dev’essere segno e strumento di unità degli uomini tra loro e con Dio.

Ma v’è di più. Il cristianesimo aiuta a vedere e a fare la pace a una profondità e con una intensità inconsueta, dal momento che identifica nel peccato la vera causa del male, e nella “grazia” la piena vita umana e divina, personale e comunitaria.

Motivazioni per la pace

Si impone, a questo punto, almeno un accenno sulle motivazioni che spingono a lavorare per la pace.

Sotto il profilo “naturale” sta una ragione basilare: la comune appartenenza al genere umano ci unisce tutti — si può parlare di “fraternità”? — e vede nella persona la fonte dei diritti e dei doveri inalienabili.

Una tale concezione si presenta in più di una versione.

Sotto il profilo teoretico, la motivazione della responsabilità per la pace incontra più di un aspetto di fragilità, quando emerge da una prospettiva ateistica o agnostica. Non si scorge, infatti, la ragione della dignità intangibile della persona, quando questa non trova in Dio, l’Assoluto, la propria origine. Perciò una simile giustificazione dello sforzo per la pace è sempre nel rischio di attenuarsi e di spegnersi, almeno nei lunghi tempi, o di aggrapparsi a schemi ideologici per sostenersi.

Anche una motivazione di stampo illuministico non è priva di incertezze, se si riflette sul fatto che Dio vi è considerato come un Essere pressoché astratto che si colloca come estraneo e lontano, e non si coinvolge nelle vicende umane.

Occorre, però, ricordare, in una visione di fede, che anche atei o agnostici o razionalisti in teoria — o in apparenza —, nella concretezza della vita, recuperano, magari senza avvedersene, un atteggiamento cristiano implicito che spiega l’azione per stabilire quella tranquillità dell’ordine che è possibile.

Da un punto di vista cristiano consapevole, palese e dichiarato, la motivazione per l’impegno della pace rinviene la propria radice nel Dio creatore che invia il suo Figlio a farsi uomo e a morire e risorgere per noi, liberandoci dalla colpa e chiamandoci a partecipare alla sua vita mediante lo Spirito.

In questo caso, la dignità della persona è spiegata dal fatto della creazione e dell’inserimento della persona stessa nel Signore Gesù, Verità totale dell’uomo.

In questa prospettiva, ancora, la specie umana si scopre, senza dubbi possibili, come fraternità chiamata a una comunione sempre più intensa. La giustizia, infatti, viene considerata come prodromo e sostanza della pace; essa è come inclusa e superata dalla misericordia. E si ha qui un passaggio decisivo da un umanesimo che è sempre sul punto di creare ingiustizia, quando, appunto, si arresta e si chiude nella sola giustizia: un passaggio, si diceva, a un umanesimo che recupera, purifica e porta a compimento la giustizia stessa neU’amore: quell’amore che Cristo ha attuato e manifestato morendo per noi sulla croce e superando la morte nella vittoria finale del suo risorgere.

Così il Signore Gesù si rende presente e attivo tra noi: contemporaneo e cospaziale a noi.

Nella visione cristiana, inoltre, trova motivo di essere una speranza indomita che non si blocca davanti ad alcun scacco, dal momento che è sostenuta dalla certezza del proprio orientamento al Regno che verrà e che dobbiamo invocare a costruire a un tempo: il Regno di giustizia e di pace.

La concezione cristiana, infine, aiuta a vivere nel realismo di chi tende all’aldilà, ma non si esclude dal dinamismo storico. Si tratta di un dinamismo che il credente percepisce come drammatico perché è attraversato dall’egoismo che pur rimane nel cuore dell’uomo; si tratta, ancora, di un dinamismo che, tuttavia, possiede la certezza dell’esito conclusivo oltre il tempo: di un esito di cui ha già delle fragili ed esaltanti anticipazioni.

Ciò domanda una lunga faticosa e lieta educazione alla pace.

Ciò domanda la determinazione di chi non si limita a considerare i “problemi” della fame, del sottosviluppo, dell’ignoranza, ecc., ma si gioca nell’annuncio evangelico e nel servizio all’uomo: al prossimo, più precisamente; iniziando dal vicino nelle sue povertà vecchie e nuove, per aprirsi a un orizzonte universale.

Il Signore ci dia di non arrestarci alle parole, ma di tradurre la dottrina della pace nella coerenza dell’azione raggiungibile con la sua grazia.

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