Omelia nella Messa di Natale

Como, Cattedrale, 25 dicembre 1990

 

Nella Messa di questa Notte, il Vangelo di Luca ci ha mostrato il “segno” mirabile di “un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”.

Quale “segno” può essere un bimbo appena nato?

È il “segno” che la vita continua? Forse sarebbe già un richiamo alla speranza, in una cultura cinica e triste come quella che ci viene imposta, dove la vita sembra una maledizione da subire o un trastullo da buttare; dove pare che i figli siano una sciagura da evitare a ogni costo e ci si impegna con ogni sforzo a lasciar posto, domani, sulla nostra terra, a persone meno frivole e sconsiderate di noi.

Oppure il “bambino avvolto in fasce” è segno di una poesia da recuperare? Può essere. Natale segna sempre un momento di commozione per le nenie pastorali che vengono suonate all’organo, per qualche sosta di riposo che ci si concede, per qualche dono che ci si scambia. Per un giorno, se il bailamme della operazione vendite e turismo ce lo permette, si può provare anche qualche commozione. Per un giorno, se non si è sciupata del tutto la “tredicesima”, si può essere anche più buoni e generosi con chi soffre: uomini di carità e di pace, per un giorno.

 

1. Dobbiamo, tuttavia, essere attenti a non snaturare questa festa, rendendola una sorta di commemorazione intrastorica.

Il rischio è tutt’altro che lontano.

Scompaiono i segni del Dio che viene tra noi. Si stipano le vetrine del nostro benessere. Ci si raccoglie in famiglia — in ciò che è rimasto della famiglia —, e ci si scambiano i regali. Si lascia cadere qualche offerta per il Terzo Mondo. Ci si impegna, fievolmente, per una ecologia che, forse, assomiglia un poco a una paura egoistica o a una impuntatura di moda. Si giocherebbe inviandosi biglietti di auguri stampati, magari senza il fastidio di una firma. Eccetera.

Così, il Natale può apparire come una grande manovra autoconsolatoria. Poiché lungo l’anno si è attanagliati come da una morsa di affanno o di disperazione, ebbene oggi ci si concede all’illusione che, dopo tutto, non siamo quelle belve che si sbranano a vicenda, come spesso ci si assicura; non siamo quegli insensibili ognuno dei quali procede per conto proprio; non siamo quegli animali da soma che gemono sotto il giogo dell’efficienza a tutti i costi o del piacere da raggiungere per riffe o per raffe. Ci si vorrebbe convincere che siamo capaci di salvarci da soli; che il “paradiso”, se non è quello crollato all’Est come un castello di carta, è quello della società opulenta — e mesta — che stiamo costruendo noi dell’epoca tecnologica, di cui già avvertiamo qualche scricchiolio.

Ebbene, no. Il Natale non è una festa intrastorica.

Il “bambino che ci è nato” è l’irrompere di Dio nella nostra vicenda votata all’assurdo. È il Verbo di Dio che “si fa carne e viene ad abitare in mezzo a noi”.

Non possiamo redimerci con le sole nostre forze, schiacciati come siamo dalle nostre colpe. Ma Dio ci ha usato misericordia nel suo Figlio diventato “uno di noi”.

 

2. O meglio: r“Unigenito” di Dio non si è posto soltanto accanto a noi; ci ha accolti e quasi riassunti in lui, che scorgiamo e adoriamo come il “Primogenito di molti fratelli”.

Se non si ha timore delle grandi prospettive teologiche, ciò significa che Cristo, nato per morire a nostro nome e in nostro favore: Cristo assiso “alla destra del Padre”, è il vero ultimo fine, il modello e la causa strumentale di tutta la creazione.

Noi siamo esemplati e orientati a lui. Nel Signore Gesù troviamo la nostra piena verità e l’autentica consistenza di uomini.

Di più. Egli è colui che ci libera dalle nostre colpe, ci introduce nell’arcano della vita di Dio; ci raccoglie, dispersi come eravamo, nella famiglia di Dio che è la Chiesa, e ci reca a compimento, dopo la morte, nella gloria della sua resurrezione.

Ciò significa che non raggiungiamo un’esistenza veramente umana, se non superiamo questa esistenza umana nella grazia. Alla fine, rimane o il santo o il dannato, non l’uomo puramente uomo.

Ciò significa, ancora, che non possiamo isolarci dai fratelli con i quali condividiamo la fede e l’amore, e ai quali dobbiamo offrire la fede e l’amore.

Ciò significa, infine, che il nostro orizzonte non si chiude nei limiti della storia, ma postula e si spalanca nell’eterno, dove Cristo ci attende glorioso.

Proprio nel Natale del Signore Gesù noi rinveniamo l’umanesimo plenario a cui aspiriamo: un umanesimo che ci svincola dal peccato, che ci fa superare l’umano, che non ci risparmia il dolore, ma lo rende santo e santificante; un umanesimo che ci lega al rispetto di ogni persona al punto che ogni depravazione di sè e dell’altro lambisce la malizia del sacrilegio.

 

3. Se il Natale non è lo specchiarsi delle nostre miserie, ma il venire di Dio a noi, il Natale non ci è imposto: va liberamente accolto.

È drammatica la possibilità che abbiamo in cuore di dir di no al Signore che ci visita. “Venne tra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto”.

Abbiamo la perfezione e la felicità a portata di mano; eppure abbiamo la capacità di rifiutare Dio che ci si dona arreso e redentore, quando ci lasciamo prendere dalla paura di essere amati.

“A quanti, però, l’hanno accolto (il Signore Gesù) ha dato il potere di diventare figli di Dio”.

È questo l’annuncio della pace, della gioia piena e della gloria del Natale. Un annuncio il quale si traduce nella conversione attraverso il sacramento della Penitenza che ci fa accostare all’Eucaristia; un annuncio il quale chiede di essere accolto non solo un giorno, ma per l’intera vita.

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