Omelia nella Messa di Pentecoste

Como, Cattedrale, 4 giugno 2006

 

 “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra: e come vorrei che fosse già acceso!” (Lc 12,49).

L’intera vicenda terrena del Signore Gesù è pervasa da questo desiderio appassionato. Proprio per incendiare l’umanità ingrigita nel dubbio e raggelata nell’egoismo, egli ha percorso le strade della Palestina annunciando la parola di Dio; quella parola di Dio che, come aveva detto il profeta, è una vampa che non si può contenere (cf Ger 20,9). Proprio perchè i figli di Adamo impaludati e spenti in un’esistenza senza ideali potessero risorgere e rinascere nel battesimo di Spirito Santo e di fuoco (cf Lc 3,16), egli si è consegnato alla passione e alla morte in uno slancio di amore per noi.

Nel giorno di Pentecoste questa fondamentale aspirazione del cuore di Cristo finalmente si compie. Dalla destra del Padre egli effonde il suo Dono, e la terra è investita da una fiamma ineffabile che nessuno potrà più soffocare. “Apparvero lingue come di fuoco... che si posarono su ciascuno di loro” (cf At 2,3). Dal mare ardente della vita trinitaria, un’onda arroventata scende a trasfigurare i discepoli che con Maria, la Madre di Dio, sono in attesa e in preghiera.

“Tutti saranno salati col fuoco” (Mc 9,49), aveva detto Gesù; e la Pentecoste avvera questa enigmatica profezia. Siamo tutti davvero “salati col fuoco”, dal momento che è sceso su di noi il “Paraclito”, il Consolatore, che è la ricchezza onnicomprensiva regalataci dal sacrificio del Figlio di Dio.

Poche realtà sono così suggestive e affascinati come una fiamma.

E pochi simboli sono di lettura tanto immediata come questa immagine incandescente.

 

1. Lo Spirito scende come un fuoco che brucia le scorie e riporta quanto nell’uomo è rugginoso e deteriorato alla consistenza e alla lucentezza della prima origine.

Che cosa vuol dire? Vuol dire che l’azione divina purificatrice – che si sviluppa in noi e dentro di noi col battesimo, con la cresima, con il sacramento della penitenza, con ogni atto sincero di ravvedimento e conversione – non resta estranea e superficiale, quasi un blando lavacro, ma arriva alle riposte fibre dell’essere, come avviene nel ferro incandescente.

Lo Spirito non è dunque un ansiolitico o un sedativo. Non viene a ratificare i comodi armistizi che talvolta stipuliamo con le nostre incoerenze; non ci è inviato a omologare i nostri avventurosi compromessi con l’incredulità e con l’errore; non favorisce le nostre ireniche propensioni a non distinguere più tra il bene il male. Lo Spirito brucia, inquieta, tormenta.

Però non conduce mai all’angoscia o, tanto meno, alla disperazione. Al contrario, vuol portarci, magari attraverso il travaglio dell’autocontestazione, a una serenità non illusoria e a una speranza che non possa mai venire smentita. Ci pone sì in una tensione incontentabile verso una mèta che ci trascende; ma non ci avvilisce, anzi alimenta sempre in noi un umile e deciso coraggio.

 

2. Lo stile dello Spirito Santo è l’opposto di quello tipico delle potenze mondane, dei “dominatori di questo mondo”. Difatti la cultura oggi prevalente prima spinge con i suoi messaggi ossessivi a prevaricare; poi si compiace di schiacciare sotto accuse senza comprensione e senza misericordia.

Il mondo prima scalza e perfino irride ogni regola giusta e sensata di comportamento; poi inchioda il malcapitato trasgressore, che si lascia sorprendere, alle sue responsabilità. Al contrario, lo Spirito non inchioda nessuno; piuttosto aiuta tutti a recuperare la libertà di chi, credendo, vive nell’amore del Padre.

È dunque un fuoco che guarisce; e se è vero che porta impietosamente alla luce le mie ferite e le mie debolezze, al tempo stesso però mi fa vedere la strada della salvezza e mi dà la forza di percorrerla con piede sicuro.

Ma l’incendio pentecostale non raggiunge solo l’effetto di mondarci e di affinarci interiormente; ci spinge anche a spenderci perchè tutta la concreta umanità, nella quale siamo inseriti, abbia la fortuna del riscatto e del rinnovamento da cui noi siamo stati raggiunti.

 

3. La Pentecoste crea, per così dire, gli apostoli e li invia a tutte le genti. È un impulso che urge anche nell’intimo di ciascuno di noi, a misura della sua generosità e della sua vocazione. La verità che ci ha conquistato e ha dato senso al nostro esistere, non possiamo non farla conoscere. L’amore che ci ha trasformati e ci ha gratificati deve divampare anche nel cuore dei nostri fratelli.

“Nel mio cuore

c’era come un fuoco ardente,

chiuso nelle mie ossa;

mi sforzavo di contenerlo,

ma non potevo”  (Ger 20,9).

 

“Mi sforzavo di contenerlo”: forse anche noi, come Geremia, preferiremmo essere lasciati in pace, tutti presi dai nostri piccoli calcoli e dai nostri interessi.

E invece lo Spirito trova mille occasioni per costringerci a entrare nel suo gioco e a testimoniare Cristo “davanti agli uomini” (cf Lc 12,8). Non si cura troppo delle nostre personali inclinazioni a chiuderci nel nostro guscio, come non rispetta i postulati, i miti, le suscettibilità della cultura mondana, e la importuna, la mette in crisi, la lievita di dentro con il suo splendore, il suo calore, la sua trasformante energia.

 

Arrenderci allo Spirito di Dio, lasciare che il suo fuoco incontenibile ci pervada e ci incalzi, entrare sotto il suo impulso nella straordinaria avventura di annunciare al nostro tempo la verità eterna e la grazia dell’unico Salvatore: ecco il dono che dobbiamo implorare in questo giorno di Pentecoste.

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