Egregio signor Ministro delle Poste e Telecomunicazioni, le confido un'ambascia: qualcosa che assomiglia a un problema di coscienza. Si tratta del cànone per la televisione di Stato. Come sa, veniamo sollecitati a pagarlo, di questi tempi. E io, parlando a un gruppo di persone di discreta caratura intellettuale e di notevole informazione sociale, mi son sentito fare la domanda sul problema morale: se è lecito non pagare quella tassa.
       Ahimè, un poco la lontana formazione teologica, un poco l'accusa continuamente mossa a noi cattolici di non avere il senso dello Stato, un poco il dovere di concorrere alla cosa pubblica da parte di tutti i cittadini; questi e altri motivi mi avevano quasi costretto ad avventurarmi in una posizione rigorista: sì, il cànone va pagato perché la televisione di Stato è un servizio pubblico.
       Apriti cielo. Mi son visto contestato come un San Sebastiano. Signor Ministro, le dico perché. Un paio di ascoltatori che avevano l'aria di usare il servizio pubblico, obiettarono che, però, la TV di Stato non dava una informazione super partes. Non seppi cosa rispondere, dal momento che mi citarono telegiornali e servizi culturali - si fa per dire, precisarono - che io non riesco a seguire. Altri annuirono.
       Poi venne la domanda circa l'esigenza di escludere la TV di Stato dalla legge del mercato: dalla concorrenza, insomma. Anche qui altri mi assicurarono che i programmi di informazione, di formazione - si fa per dire, precisarono - e di loisir valevano press'a poco quanto quelli delle altre stazioni televisive. Sempre per via dell' audience; con questo di caratteristico: che la TV di Stato usciva malconcia dal confronto per il livello di serietà del lavoro. Relata refero. E per di più: con un personale doppio e oltre rispetto alle aziende private: vicedirettori molteplici a dismisura, capicronaca a schiera, segretarie a plotoni ecc. Non so riferirle le cifre, ma i contraddittori le snocciolavano credo senza inventare troppo. Mi attaccai alla ragione che, però, il servizio pubblico quasi non trasmette pubblicità. Pure qui non mi accettarono del tutto la difesa fatta in nome di un principio lontano che vedevo vacillare e svanire. Non mi accettarono del tutto. Qualcosellina concedettero, ma non troppo. Senza aggiungere che alcuni dichiararono di non accedere mai o quasi alla TV statale.
       Quando osservai che, in ogni modo, un servizio lo si paga perché viene reso possibile, mi vidi un poco compatito. Come se dovessi pagare tutti i viaggi che potrei intraprendere e le scatole di sardine che potrei comprare. Mi si precisò anche che, per evitare diatribe e lungaggini burocratiche, il cànone fu mutato per legge da una tassa di uso in una tassa di possesso di un aggeggio che sarebbe il televisore.
       A questo punto, fui io a ribellarmi. Logicamente, perché non mi si fa pagare una tassa sul possesso del tavolo da cucina, della poltrona Kennedy sulla quale mi spaparanzo la sera, del comodino o del frigorifero? Non mi si ribatta che, però, questi oggetti non producono servizi. E come no?
       Devo ammettere che gli interventi criticavano un po' tutti la linea politica della TV di Stato. Vedremo quando - e se - cambieremo governo. Toccherà ad altri muovere difficoltà. Ma intanto, signor Ministro, come me la cavo con il mio senso dello Stato di cattolico italiano? Mi aiuti. Grazie.

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