Promesse sacerdotali

Omelia nella Messa del Crisma

Como, Cattedrale, 28 marzo 2002

Questa messa della mattina del Giovedì Santo è appuntamento atteso dalle comunità cristiane, ma soprattutto da voi - da noi - preti. Il ritrovarci nel Presbiterio evoca la trepidazione del nostro incessante divenire sacerdoti. Perciò rinnoviamo le nostre promesse sacerdotali: ci disponiamo a unirci intimamente al Signore Gesù, modello del nostro sacerdozio, rinunciando a noi stessi e confermando i sacri impegni che, spinti dall'amore di Cristo, abbiamo assunto liberamente verso la sua Chiesa: per adempiere il ministero della parola di salvezza e per essere fedeli dispensatori dei misteri di Dio sull'esempio di Cristo capo e pastore.

Nel, non del mondo

Conosciamo per esperienza dolorosa le difficoltà che ci si parano davanti nel custodire e nel perfezionare la fisionomia presbiterale ricevuta nel giorno della nostra ordinazione. In un mondo che sembra impostato su una logica opposta al pensare e al vivere cristiano: un mondo nel quale dobbiamo agire e al quale non dobbiamo, però, appartenere. Qualche spunto di valore anche. Ma quanta compassione dobbiamo nutrire verso di esso. E quanta diffidenza. E quanta condanna. E quanta fuga interiore. Spesso ci si scopre convertiti al secolo, il cui principe è satana, quasi senza accorgersene: si inizia con qualche cedimento che pare un nulla, e si arriva al rifiuto di Dio o all'indifferenza religiosa, che è anche peggio. Non ci si scomoda neppure a mettere lo Spirito alla porta dell'animo: si riempie l'animo di altro, e lo Spirito non trova più accoglienza.
Non dimentichiamo, poi, che il mondo attraversa anche il nostro cuore fragile e incerto. Negligenza e quasi disgusto per la preghiera. Abbandono degli esercizi spirituali e del sacramento della penitenza. Fretta e superficialità nella celebrazione della messa. Trascuratezza nella liturgia delle ore, nella meditazione, nella visita a Gesù eucaristia, nella recita del rosario mariano. Abuso della televisione o/e di altri svaghi che distolgono dal Signore. Mancanza di controllo nel fumo, nel cibo e nelle bevande. Accostamento indelicato e magari un poco possessivo alle persone. Attaccamento ai soldi così da pretendere il superfluo e da separarsi troppo dallo stile della gente con cui si vive. Eccetera.
Per non parlare di difficoltà inerenti al ministero sacerdotale: ritualismo, senso di inutilità del proprio lavoro, solitudine, frustrazione di fronte all'inconcludenza dei propri sforzi e così via.

Promesse dialogiche

Può sembrare professione di moralismo l'elencazione di questi - e di altri - rischi ed eventuali infedeltà. Il fatto è che l'ambiente culturale in cui ci muoviamo propone di continuo e in modo prorompente - o seducente - uno schema di pensiero e di vita che si disegna, poco o tanto, come un antivangelo. Forse abbiamo troppo idealizzato una certa positività del mondo nel quale pur opera lo Spirito, ma che in verità è posto nel maligno. Forse abbiamo troppo allentato le difese che ci si imponevano per non tradire la nostra identità cristiana e sacerdotale.
Si può girare attorno fin che si vuole ai motivi di un qualche cedimento della figura attuale del prete. Celibato, scelto però. Integrazione affettiva negata in senso sponsale comune per attuarne una soprannaturale eppur profondamente umana a suo modo. Secolarità del prete diocesano. Isolamento pastorale. E altri fattori. Con ogni probabilità, tuttavia, la radice ultima della fragilità sacerdotale va rinvenuta in una crisi della fede. Alla fine, le promesse manifestate durante la preparazione al presbiterato non si qualificano innanzitutto come rinunce: sono il riverbero mortificatorio di una scelta positiva e determinante del Signore Gesù: proprio perché ci si dona a Cristo risorto totalmente, esclusivamente ed eternamente per assumerne le funzioni di maestro, di sacerdote e di pastore, si è consegnati alla Chiesa e al mondo con una precisa identità che richiede anche distacchi netti perfino di ciò che, in qualche caso, in sé si qualifica come valore.
L'essere prete implica un atto di fede in ciò che si è e in ciò che si è abilitati a fare perché ci si unisce a Cristo e se ne continua la presenza e l'opera di salvezza in modo e in misura del tutto originali. Il sacerdozio è condizione dialogica, anzi comunionale con il Signore Gesù. Senza tale riferimento essenziale, non ha significato né la propria struttura ontologica di mediazione e di grazia, né la propria attività pastorale e missionaria. La contemplazione è atteggiamento costante nel prete perché possa davvero predicare, celebrare, guidare a nome di Cristo.

Libertà di scelta

Oggi siamo abbastanza inclini a valutare le scelte che compiamo assai marcatamente in chiave psicologica. Così ne viene un giudizio che all'autenticità sostituisce la spontaneità della decisione. In certi casi, poi, la fede non assimilata nella persona sta e può dolorosamente cadere come un'armatura posticcia, come un vestito logoro, lercio e sbrindellato. O anche sgargiante. Allora si avverte una sofferta duplicità interiore. Il sacerdozio viene vissuto come una recita sleale. Quando è iniziata tale intima separazione?
Non è il caso di condannare o di negligere la componente sentimentale dell'uomo. Né di valutare come definitiva una situazione quasi di estraneità al proprio essere umano e soprannaturale. E, però, a decidere se essere, o no, sacerdote in eterno è una libertà che normalmente si è giocata con sufficiente cognizione di causa e con capacità bastevole di scelta, specie se si pone mente al sostegno della grazia: una decisione a cui si deve rimanere fedeli anche se si dovessero incontrare momenti prolungati di sofferta aridità e di buio tormentoso nella vita. Nella generalità dei casi siamo chiamati a riconoscere che, con l'aiuto di Dio, ci è data questa abilità di rispondere a una chiamata di Dio; dopo di che, lo svolgersi dell'esistenza ci si rivela come una libera fedeltà alla parola liberamente data. Non si può analizzare la propria situazione umana per scorgere dove mi porta l'istintualità o il principio del piacere (quanto vaniloquio sulla felicità nel linguaggio delle percezioni più superficiali che ignorano la legge della croce). In momenti di prova ci si deve confrontare con il Signore Gesù e nuovamente giocare per lui senza riserve ed esitazioni. Il mantenere la parola può chiedere spesso di rimanere anche a lungo in croce. Nel sacerdozio e nella fede. Si dà il caso che, schiodandoci dal legno per una illusa autonomia, si fallisca anche come uomini.

La crescita della decisione

Parlavo di sufficiente avvertenza e di bastevole consenso. Nel momento della determinazione responsabile per uno stato di vita, non si può pretendere di possedere in modo esplicito tutte le ragioni valide e soltanto le ragioni valide che giustificano e sostengono una scelta.
Si dica chiaramente che la scelta svanisce o viene tradita, se si pretende di conservarla come un dato statico. Essa coincide con la persona umana protesa a crescere nell'amore di Cristo e nel servizio alla Chiesa. O si evolve, o muore. Così, le motivazioni che hanno sostenuto una decisione devono accettare di essere corrette nel loro disporsi sintetico, di permettere ad alcune di esse di venire in primo piano, mentre erano sullo sfondo, di lasciare che altre si affaccino alla riflessione e altre ancora vadano all'orizzonte lontano della consapevolezza. E' la vita che si incarica di progredire e di mutare rimanendo sempre la medesima fino alla perfezione. E' il miracolo della santità che si va scoprendo con meraviglia attonita e grata. Purché non si pretenda di atteggiarsi a illusi arrivati nella via della Perfezione. Il sacerdozio è mistero che si radica nel mistero della vita divina del credente.

La coerenza concessa

Si ammetta pure che questo avanzare verso l'età adulta in Cristo - o verso l'infanzia evangelica - non si porrà mai come un'unità adeguata tra ciò che si è e ciò che si è chiamati a divenire. Si avvertirà sempre nell'intimo una dolorosa frattura tra la santità consumata e la situazione in cui ci si trova. "Vivo io, ma non più io: è Cristo che vive in me": questa parola si staglia come un ideale a cui orientarsi, senza raggiungerlo mai nell'esistenza terrestre.
Ed ecco la vertigine inquietante della lontananza di fronte al modello di prete che dovremmo essere. "Io ti battezzo", "Io ti assolvo", "Questo è il mio corpo" ecc. Parole che devono essere vere sulle nostre labbra, mentre misuriamo l'abisso che ci separa da questa identificazione con il Signore Gesù. Anzi, ecco il senso della doppiezza che avvertiamo quando insegnamo verità che non attuiamo. E il senso della incoerenza quando veniamo giudicati con favore, mentre sappiamo bene quale miseria nascondiamo.
Ebbene, altra coerenza non ci sarà data se non quella di un desiderio sincero di essere coerenti: un desiderio che ci spinge a non arrestarci mai ai traguardi raggiunti. Anzi, altra coerenza non ci sarà data se non quella della misericordia impenitente di Dio che ci toglie il diritto di disperarci. A ogni caduta un riinizio giovane e schietto quanto è possibile. Settanta volte sette.

Il contesto del presbiterio

Le promesse sacerdotali che rinnoviamo oggi non sono iniziative solipsistiche o individualisticamente religiose. Sono offerte che presentiamo al Signore insieme nel Presbiterio diocesano.
Sta forse qui il segreto della fedeltà sacerdotale: in questo sentirci sodali in Cristo prete. Sodali e amici. Amici e fratelli nell'amore del Vescovo, segno e principio di unità nella Chiesa locale. Origini di altre vocazioni sacerdotali.
Sta forse qui il segreto della gioia presbiterale. Che invochiamo dallo Spirito per la mediazione di Gesù a gloria del Padre. Con Maria.

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