Benedetto XVI e l’islam: un equivoco, se non un errore

Il problema più intrigante che rende complicata e quasi contraddittoria la polemica della grande informazione nei confronti del discorso del papa di martedì 12 settembre all’università di Ratisbona sta nel decidere se chi polemizza ha letto il testo dell’intervento, e l’ha capito. Sì, perché si tratta di una lezione universitaria da non paragonare a un fumetto o a un raccontino di quindici righe.

La presa di posizione del papa. Rifacendosi a un colloquio di un imperatore bizantino del 1391 con un dotto musulmano, il sommo pontefice afferma che Maometto ha portato nella cultura del suo tempo e del suo ambiente “soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada le fede che egli predicava”. Con ciò il papa non intende affatto presentare una sorta di riassunto del Corano, il quale nella sura 2,256 afferma: “Nessuna costrizione nelle cose della fede”. E tuttavia “Dio non si compiace del sangue; non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”. Il papa vuole soltanto mettere in evidenza la contraddizione esistente nel libro sacro dell’islam e invita a confrontarsi pacificamente con i musulmani. Nulla di nuovo, dunque. Semmai la messa in evidenza di un aspetto positivo anche nel Corano: una sorta di inizio di dialogo.

Dopo di che, il sommo pontefice, parlando in termini universitari, va alla ricerca non di frasi da contrapporre a frasi, ma del motivo profondo che rende la concezione musulmana e la concezione cristiana inconciliabili a questo riguardo. Il motivo più profondo sta nel fatto che il cristianesimo sostiene la validità della ragione umana: una ragione derivata dal vecchio testamento, dal nuovo testamento e dalla filosofia greca che hanno attuato una sintesi capace di accogliere il vero e il bene dovunque si trovino. Non è detto che il cristianesimo abbia sempre mantenuto l’equilibrio di conoscenza, di giudizio e di azione conseguente a queste ascendenze culturali. Sta, tuttavia, il fatto che la ragione si dispone ad accogliere la verità e la moralità dove vengono rinvenute: ovvio, innanzitutto nel cristianesimo. Qui Benedetto XVI compie una carrellata storica che registra anche la depravazione della ragione: dal positivismo biblico al metodo storico della conoscenza con l’esclusione di ogni metafisica, fino alla condizione attuale ripresentata come pericolo di un assolutismo relativistico.

La concezione islamica non ammette – in generale e specialmente nella prassi quotidiana – la ragione come ricerca della verità, la volontà come apertura al bene. Il Dio islamico, invece, si sottrae alle prese della ragione pur purificata dalla analogia. Perciò ha in sé una tendenza si direbbe innegabile verso l’intolleranza teorica e verso l’uso della forza per imporre la religione.

Non è possibile ritornare sui propri passi per restringere l’uso della ragione: questo uso va verso applicazioni sempre più ampie e profonde. Solo fondando il confronto interreligioso sulla ragione è possibile un colloquio produttivo. Diversamente si ha uno scontro irreparabile. Ciò vale – ben inteso – anche per la cultura occidentale che rifiuta la ragione, il logos. Un esempio di metodologia di incontro interreligioso. La protesta immotivata somiglia molto a una lotta tra chi maneggia la lama e chi espone le proprie convinzioni che si aprono alla fede.

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