Scuola: pretese musulmane

Il discorso qui non verte sul terrorismo islamico. Ormai ci stiamo accorgendo che non tutti gli islamici girano per le strade imbottiti di esplosivo. Anzi, la maggior parte di questi nuovi arrivati in Italia lavorano sodo e magari fanno sacrifici per aiutare le loro famiglie nei paesi d’origine, quando non hanno ancora chiamato da noi mogli e figli. Il discorso è semplicemente la vicenda che sta capitando in via Quaranta a Milano, dove da sei anni funziona una scuola con programma egiziano o comunque arabo: una scuola che in questi giorni le autorità civili milanesi vogliono sopprimere tardivamente. E non tanto chiudendo – come si è obbligati a fare – per motivi igienici e mandando a spasso scolari e famiglie. I cinquecento alunni sono invitati a partecipare alla scuola pubblica statale come qualsiasi cittadino italiano. Non solo: concedendo gratuitamente due ore settimanali di arabo e forse di Corano.

Non si tratta che di un caso. Le scuole arabe funzionanti in Italia sono già cinquantatre, almeno quelle censite. Gli alunni e le famiglie pretendono di avere dei fabbricati dallo Stato per svolgervi i loro programmi scolastici. Programmi che si rifiutano nettamente di adeguarsi a quelli che il ministero della pubblica istruzione stabilisce per ogni scolaro. Dunque, insegnamento arabo – anche in religione -, disinteresse per la storia e le vicende del paese che li ospita, nomina degli insegnanti senza dipendere dall’autorità scolastica governativa. Pretesa di riconoscimento degli esiti e dei diplomi come fossero quelli dati dall’insegnamento statuale.

Il motivo di questi diritti accampati? La tutela della cultura d’origine: una cultura da mantenere e da far crescere in una nazione che non è quella di origine e, presumibilmente, dovrà accettare la presenza di “ghetti” islamici, senza la possibilità di far valere la legislazione italiana in essi. Si può capire il desiderio di mantenere e di coltivare la cultura da cui si dipende. Non si riesce ad accettare che la cultura nuova in cui si entra rimanga estranea o quasi ai nuovi arrivati.

L’integrazione non è una fisima di alcuni italiani che si intestardiscono a volere la purezza della lingua e della razza. E’ semplicemente l’esigenza di una unità di un popolo, che, pur composto di varie etnie, intende essere uno almeno negli elementi fondanti come la lingua e il patrimonio letterario, scientifico e storico che ha alle spalle.

Di questo passo, si può immaginare che le scuole arabe saranno indipendenti dal potere civile italiano. Anche perché gli arabi interessati non accettano una “istruzione familiare” che pure è prevista dalla legge italiana.

E non si paragoni la questione di via Quaranta con il caso della scuola cattolica. Questa accetta i programmi del ministero, il calendario, gli insegnanti preparati allo scopo ecc. Imposta l’insegnamento alla luce del Vangelo, ma calandosi in una situazione civile pienamente condivisa o quasi.

Senza aggiungere che le scuole musulmane possono essere l’avvio di una convivenza che non vuole avere contatti con gli abitanti del paese che ospita. Dopo la scuola verrà il problema delle diete, il problema degli abiti, il problema dei giorni festivi, il problema del vitto, il problema delle soste di preghiera e così via.

Prepariamoci a un confronto leale e rispettoso non solo delle convinzioni e dei valori degli altri, ma anche della nostra originalità che ha provocato una situazione desiderata da chi intende immergervisi (sfruttarla?).

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