La contraccezione di don Verzé

Il lettore non si spaventi. Non voglio ritornare sul tema del referendum circa la fecondazione artificiale: se votare o no, come votare nel caso che, a mio modo di vedere sbagliando, si decide di votare. Mi colloco alcuni passi prima della questione. Circa l’accettazione o meno della contraccezione. Don Luigi Verzé, il fondatore e il manager dell’Ospedale S. Raffaele a Milano, in una intervista al Corriere (02/02/2005) si sente in diritto di esprimere il proprio parere anche sulla contraccezione. Cito: “Non sopporto gli irsuti inquisitori che pretendono di alzare il lenzuolo del letto nuziale; mi pare impudico. Credo che a suo tempo la Chiesa accetterà la fecondazione omologa in vitro, come accetterà, almeno per situazioni limite, la pillola contraccettiva e il preservativo. Per farlo capire a certi proibizionisti basterebbe che uscissero dalle affrescate stanze curiali e si intrattenessero per un po’ nelle favelas e nei tuguri africani”.

Non vivo in stanze affrescate e lontano dalla gente. Da vescovo di campagna, però, mi viene da chiedere se l’enciclica Humanae vitae è una opinione peregrina di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, oppure è insegnamento del Magistero ecclesiale. In un discorso tenuto il 5 giugno 1987, il papa ha affermato: “Quanto è insegnato dalla Chiesa sulla contraccezione non appartiene a materia liberamente disputata tra teologi. Insegnare il contrario equivale a indurre nell’errore la coscienza morale degli sposi”. Don Verzé non si illuda soverchiamente. E, da prete, prepari i fedeli ad accettare il Magistero, poiché tale è, e non un’opinione mutevole e discutibile per i credenti.

Don Verzé, nella sua intervista, pone una clausola di sicurezza: per lui la Chiesa accetterà la pillola contraccettiva e il preservativo “almeno per situazioni limite”. Non c’è bisogno di andare nelle favelas e nei tuguri africani per capire questa condiscendenza che è fedeltà alla legge di Dio. I moralisti anche più seri, i vescovi anche più arcigni, il papa stesso hanno già accentuato l’esigenza di tener conto della situazione in cui i credenti vivono: hanno assicurato che non a ogni disordine morale grave oggettivo – che tale rimane – corrisponde una colpa soggettiva grave. Ma qui si accetta la perfezione evangelica e si tenta di adeguarvisi; non si liquida la dottrina etica della Chiesa con una battuta. Ci troviamo ancora una volta di fronte a una indebita sovrapposizione del piano della responsabilità soggettiva al piano della moralità oggettiva. E il primo dovere della Chiesa non è quello di adattarsi a ciò che pensa la maggioranza, ma di conformare il proprio pensiero e il proprio insegnamento alla mens di Cristo e alla norma di morale naturale. Il giudizio supremo sulla colpevolezza lo darà la coscienza davanti a Dio.

Perché, allora, snobbare coloro che vivono nelle “affrescate stanze curiali” e mostrare la Chiesa come soccombente di fronte alle pretese di fedeli pur in difficoltà? Meglio non fare troppe profezie, don Verzé, e ammettere che la perfezione cristiana e umana costa fatica. E che il Signore è misericordia e forza.

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