Parla monsignor Alessandro Maggiolini, pastore, teologo e saggista. Un anno fa l’annuncio: «Ho il tumore». Ora un Natale di riflessione e di attesa

 

Per il presepe nell’anticamera del suo studio quest’anno voleva le papere: «Non di gomma: no, pensavo a quelle leggere, che galleggiano». Sarà che il lago è a pochi metri, ma quella di monsignor Alessandro Maggiolini non è poi un’idea stravagante. Invece, niente. «Per trovarle ho dovuto fare il giro della città. Mi dicevano: "Eccellenza, non si mettono". E chi l’ha detto? Nel mio presepe c’è un lago. E poi, Dio prende anche le oche...». Abituato a sorprendere il vescovo di Como lo è sempre stato. Come quando annunciò pubblicamente di essere malato. Cancro. Seguirono tre operazioni, periodi di lotta con la malattia dai quali sembrava non dover uscire. Invece eccolo qui, al tavolo di lavoro: un po’ più curvo, un tremolìo alle mani, il testamento sotto lo scrittoio, ma tutt’altro che piegato. Tant’è che ha appena dato alle stampe un nuovo libro (Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla Terra?), tagliente come i precedenti.

 

Che Natale è quello di un infermo nel pieno della lotta per uscirne, ma per il quale potrebbe anche essere l’ultimo? Di un vescovo, poi? 

Lui la prende alla larga, però si capisce che è un metodo da vecchio professore. Parla dei bambini che ha incontrato in cattedrale per dirgli che «Gesù Bambino va lasciato mettere da papà e mamma a mezzanotte, mentre voi dormite». Continua con l’idea al centro del suo libro, tutto tessuto su una trama escatologica: «Gli attori della storia – spiega – sono Dio, il Maligno e la nostra libertà, intesa come responsabilità. Ho l’impressione che sia stata talmente sottolineata l’iniziativa di Dio da dimenticare la risposta dell’uomo: Dio ci salverebbe a prescindere dalla nostra libertà... E la fatica, l’agere contra, l’ascesi, che fine hanno fatto? Tra la croce e una scampagnata c’è una bella differenza. Senza fatica, che cristianesimo è? Eppure, questa è una cosa che la predicazione ha dimenticato. Dio non si vede, non si tocca, ma se ne ha un grande bisogno. Intendiamoci: un Dio che abbia mani, piedi e un numero di scarpe. Se no, non mi interessa».

 

Monsignor Maggiolini, dica la verità: il libro l’ha scritto pensando alla sua condizione di malato? 

«Il teologo, come il filosofo, fa sempre autobiografia, lo voglia o no. È difficile staccare l’intelligenza dal succedersi dei propri giorni. La mia situazione ha influito, certo. Io della morte ho paura, perché c’è di mezzo il dolore, e soprattutto quella domanda terribile: sono stato leale con me stesso? Davanti al Signore, quando le maschere verranno strappate e apparirà il mio volto nudo, sarò quello che credo di essere oppure quello che sono davvero? Se ci s’illude di essere eterni, allora non tireremo mai fuori gli unici argomenti veri, sebbene alquanto sgarbati: la morte è un persistere cadendo nelle grandi braccia di Dio, oppure uno scivolare nel nulla? Leggo il Vangelo e vedo che Gesù parla di chi si salva, certo, ma anche chi si danna. L’inferno non è vuoto, bisogna aver paura di andarci. Una paura che non paralizza, non mortifica, ma deriva da un amore ricevuto e non sufficientemente corrisposto. Ecco: ho paura di non avere amato a sufficienza».

 

Quando pensa ai primi istanti dopo la morte, cosa immagina? 

«Che voglio vedere negli occhi Gesù, sono curioso di sapere il loro colore. Come mi guarderà? Perché quando guardò Pietro, lui si mise a piangere, e furono quelle lacrime a salvarlo. Ho voglia di dare un grande abbraccio alla Madonna, e poi ho tutta la lista dei miei cari che vorrei vedere subito, perché sarà un grande ritrovarsi: il papà, la mamma, un fratello morto a 23 anni, gli amici, i preti di cui ho celebrato il funerale e che voglio incontrare appena entro, perché ci siamo voluti bene. L’escatologia ha cessato di essere un discorso: entra ogni giorno nella normalità della mia vita».

 

Che rapporto ha con l’idea della morte? 

«Le ripeto: ho paura di non essere sincero con me stesso, che Dio in me veda qualcosa di diverso da ciò che io vedo. Sono così abile nel truccarmi lo sguardo che posso vedere quello che voglio. E allora ripeto, con profonda devozione: "Non permettere, Signore, che mi separi mai da Te!" Riesco ad accettarmi solo quando mi metto nelle mani di Dio, che so misericordioso, e gli dico: senti, io credo, ma dammi la lealtà di cui non sono capace. Voglio lasciarmi perdonare».

 

La malattia ha cambiato la sua fede? 

«Mi ha messo davanti a una realtà: ciò che credevo "alla lontana" ora è sotto i miei occhi. Ho passato momenti in cui me ne stavo andando, e ho appreso che davanti a me non c’erano semplicemente idee ma verità tangibili. Ho fatto la confessione generale, stancando chi mi ascoltava: volevo squadernarmi davanti al Signore. Dopo, basta. Ho detto: adesso aspetto quel che il Signore mi darà. Adesso mi sento regalato due volte: perché mi ha creato, e perché mi concede ancora di vivere. Ma il sipario con la vita eterna si è fatto liso come una carta velina. Ho l’impressione che basti un niente, e vado di là».

 

Vede già oltre? 

«Presento. Il Rosario lo dico sempre con il Requiem anziché ilGloria, sentendomi "addosso" tutte le persone che ho incontrato nella mia vita e che mi aiuteranno. Li vedo come in uno di quei quadri delle vecchie famiglie contadine, che mettevano insieme tutte le fotografie delle persone più care».

 

Come vive questo "tempo regalato"? 

«Mi creda: con la spensieratezza di uno che fa il vescovo divertendosi. Faccio quel che devo, talvolta con fatica fisica. Ma c’è un gusto straordinario. Ad esempio, il mio segretario sa che se in Curia passa un prete per questioni amministrative lo deve portare da me, anche solo per una battuta. Poi invece spesso ci si ferma a parlare, e ho la gioia di queste chiacchierate, specie con i preti anziani: ci intendiamo a meraviglia. Mi chiedo il motivo di questo "prolungamento" della vita: chissà perché Dio me l’ha dato. Comunque, me lo godo».

 

E con la diocesi, il rapporto è cambiato? 

«No. Ho voluto parlare della mia malattia perché credo che sia sciocco far diplomazia su serie. Sin dal primo momento ho considerato il ministero episcopale come un servizio, se non altro per obbedienza: fosse stato per me, avrei fatto il professore e il confessore. Adesso sento crescere dentro di me il lato della paternità».

 

Cosa direbbe ai malati come lei? 

«Pochissime cose: che siamo qui, ad aspettare che il Signore arrivi a prenderci, se siamo pronti. Si muore soli, è vero, ma c’è la Chiesa che ci accompagna. E poi, di là c’è Qualcuno che ti aspetta».

 

Come sarà il suo Natale? 

«Niente di straordinario. Andrò in carcere, anche dai detenuti in isolamento, e poi dalle mamme in prigione con i loro bambini. Ma mi auguro sia un giorno qualsiasi. Dal giorno in cui si è fatto Bambino, divino e umano sono inseparabili. Natale allora è bello, ma Natale è sempre».

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