Per la Pasqua prossima, è scattata l'operazione scambio dei biglietti. Auguri. Auguri. Auguri perché? E di che cosa? Di una sorpresa come nell'uovo di cioccolato? Ma chi sa decifrare il nostro povero cuore per scorgere le attese più fonde? Sovente siamo analfabeti di noi stessi. E poi - o prima -: se si desidera il bene dell'altro, a chi si sospende questo desiderio? al fato? alla combinazione dei grandi numeri? al nulla? Ma allora, il gioco frenetico dei biglietti che intasano le poste già pigre per conto loro: questo gioco non si disegna come un mesto inganno diffuso? non ci si rivela come un vano conato di felicità che si ripiega ancora su di noi e ci rende più greve la solitudine?

Lo si voglia o no, se non si cede a una farsa assurda; se non ci si consegna a un vaniloquio lieve e disperante: se non ci si intende esporle a un egoismo ammantato di fraternità - fondata su quale ragione poi? -, occorre forse riconoscere che l'augurio segna un impegno personale; ancora più in là, poiché l'impegno non conclude, alla fine: bisogna ammettere che l'augurio somiglia molto a una preghiera. Ma allora ci si impone di interrogarci chi stiamo invocando. E con quale fiducia. E con quale speranza. Ecco che ci raggiunge un annuncio paradossale, e noi l'abbiamo magari scansato senza troppo riflettere: magari per pura obbedienza alla mentalità diffusa. Nella storia umana un sepolcro è stato trovato vuoto. Non è vero che nessuno è mai tornato dal regno dei morti: uno si è risvegliato dalla morte e non si è ficcato di muovo nei nostri opachi giochi di morituri. Gente smagata e perfino ostile l'ha incontrato vivente e regnante: lo stesso che era spirato sulla croce e che era stato deposto nella cella funeraria. Si può anche rifiutare - o ammettere di non essere capaci - di aderire con fede al senso arcano di questo avvenimento.

Eppure ci si trova in una situazione strana, se non si crede: non si riesce a spiegare un fatto che, però, non si riesce neppure a negare. Con tanti saluti al pensiero debole. E se quest'uomo glorioso dopo la morte fosse, come ha detto, il Dio che si e addossato i nostri peccati e ha vinto la nostra eterna nemica, e cioè il fallire della nostra invocazione di eternità?

Forse bisognerebbe scavare nell'animo umano fino ad accorgerci che non ci bastano le cose; che non ci bastano - ci deludono - neppure le persone; che nulla di finito sazia la nostra sete di felicita, eppure tutto il nostro essere grida - o sussurra - che non possiamo ritornare nel nulla orrido e assurdo.

So bene che si rischia forte, se si colora la Pasqua di una gioia facile e trionfalmente raggiunta. Il fatto è che la Pasqua ci viene donata. E che occorre un altèro coraggio per riconoscere d'aver bisogno di aiuto per essere se stessi.

Chissà, forse ci si concederà al mistero perché si saranno tentate altre vie le quali si sono rivelate ancor più deludenti; forse bisognerà prima perdonare a noi stessi di essere noi stessi, per consentire a Dio di essere Dio. Alla radice di noi sembra spuntare, prepotente e ineliminabile, un'esigenza di eternità e di beatitudine. A quale scopo il sapore della bontà, dell'amicizia, del dovere compiuto, dell'onore alla parola data, della bellezza intravista e gustata per esperienze esigue e fugaci ecc., se poi la realtà non corrisponde al desiderio?

Una realtà mortificante, oltre e ancor prima che gloriosa. Occorre rigore per perdonare anche a Dio di essere Dio.

E il cristianesimo, prima di essere dottrina, morale, ascesi e così via, ci si pianta davanti come un fatto, un avvenimento, una persona umana nella quale l'infinito vive la nostra flaccida e austera vicenda e ci insegna e ci include nel mestiere di uomo. Esaltante. Buona Pasqua. Che si chiama Gesù di Nazareth. Verbo di Dio morto e risorto.

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