Due notizie. Una prima. Giorni fa, il ministro Moratti ha portato a una trasmissione televisiva un plico di vari volantini distribuiti tra gli studenti di scuole statali italiane e contenenti informazioni oggettivamente false sulla riforma scolastica. Del tipo: saranno tolte dai programmi le ore di educazione fisica e di educazione musicale; verranno aboliti il tempo pieno e la mensa; saranno istituite trecento ore a pagamento ecc. Menzogne.
       La seconda notizia. In svariati istituti di scuole statali medie superiori in molteplici città italiane, indistintamente, insegnanti di lettere e filosofia, matematica e fisica, lingue, religione - poteva mancare? - e così via, hanno trovato modo di fare recentemente ore di propaganda politica, invece che occuparsi delle loro materie. La segnalazione è data da un telefono amico contro la politicizzazione della scuola, attivato tre mesi fa da un responsabile in commissione cultura della Camera. Tanto di nomi, cognomi, date, luoghi e dettagli. Non la maggioranza dei docenti, certo, i quali sono generalmente seri e in piccolissima parte anche pavidi.
       Può sembrare un incitamento allo spionaggio. Ragioniamoci sopra un istante, passando di là da un certo moto di disgusto. Intanto, sembra davvero che, di fronte a «una vera e propria campagna di disinformazione - ha sostenuto Letizia Moratti -, professori, studenti e famiglie hanno il diritto di sapere come stanno veramente le cose». Obiezioni da muovere? Circa il telefono amico, poi, verificati i fatti, ci si può chiedere: i docenti hanno libertà assoluta di insegnamento?
       Per che cosa sono pagati?
       «L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento», recita la Costituzione all'art. 33 par. 1. Ciò vale per la ricerca e la didattica universitarie. Ciò vale ancora per scuole i cui titoli non sono riconosciuti legalmente e professionalmente dallo Stato. Per studi privati. Per gruppi culturali di competenti e appassionati. Per case editrici autonome. Per giornali. E così via elencando. Ma per la scuola dell'obbligo - soprattutto per quella a gestione statale - dove vigono leggi che regolano programmi, ore di insegnamento, concorsi non proprio impervi per abilitazione di docenti, modalità di esami? E infatti la Costituzione parla di Repubblica che «detta le norme generali sull'istruzione» (cfr. art. 33, par. 2). Libertà di insegnamento anche qui? E ogni maestro e professore può dire ciò che gli frulla in testa di sistema di pensiero, o che gli ribolle in animo di passione politica? Calma. Il compito formativo dei ragazzi è originariamente dei genitori: «Il dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli anche se nati fuori dal matrimonio», recita ancora la Costituzione (art. 30, par. 1). Lo si voglia o no, la scuola nasce come continuazione e sostegno della famiglia. O/e della società. Sarebbe dei tutto logico cavare da questa premessa ciò che di nuovo la Costituzione prevede, vale a dire che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione», se tale diritto non fosse concretamente negato proprio mentre lo si afferma, con la clausola «senza oneri per lo Stato» (art. 33, par. 3): quasi a dire faccia pure chi vuole, ma paghi due volte la libertà con le tasse per la scuola statale e con la retta per la scuola privata. A meno che si riconosca - come è giusto - il diritto allo studio (cfr. Cost. art. 34).
       Ma stiamo al discorso avviato. I maestri e i professori anche - anzi, di più - quando si trovano di fronte a ragazzi con famiglie sfasciate alle spalle, hanno l'obbligo di attenersi al programma che è loro assegnato e, se vogliono rifarsi - com'è giusto - a una sana laicità, devono dipendere dal patrimonio greco-romano-cristiano-illuministico ecc. che sta alla base della Carta fondativa della nazione. Non possono, perciò, far politica o proselitismo religioso - anche cattolico, manco a dirlo - o propaganda ideologica. Tale apparente limitazione - che è arricchimento - non segna affatto una deminutio, anzi accresce la dignità dei docenti. I quali tutti dovrebbero avere il buon gusto di non servirsi della cattedra per prevalere, con la loro cultura e la loro abilità dialettica, sulla inesperienza e sulla plasmabilità degli alunni. Troppo facile. Si misurino con docenti di pari grado e di diversa ispirazione di pensiero. Influire su ragazzi inevitabilmente dipendenti - non foss'altro perché non hanno il registro tra le mani - sa di maramaldismo; ma la parola esatta è: sopruso, violenza, vigliaccheria. Vogliamo discutere? Non sarà male se i maestri e i professori più disinvolti si sentiranno un poco sotto controllo: un controllo che vuole essere un aiuto. O possono agire impunemente. influendo anche sulle famiglie o sulla convivenza umana a loro capriccio? Un poco di senso della misura, suvvia. E di lealtà. Parlo di eccezioni da verificare sul campo. Un grazie cordiale al ceto dei docenti in genere preparati e protesi alla crescita autentica degli alunni.

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