La notizia. Martedì la Camera ha votato il riconoscimento e l'incentivazione della «funzione educativa e sociale svolta nella comunità locale, mediante le attività di oratorio e attività similari, dalle parrocchie e dagli istituti religiosi cattolici nonché dalle altre confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato un'intesa». Si tratta di iniziative «volte in particolare a promuovere le realizzazioni di programmi... finalizzati alla diffusione dello sport e della solidarietà, alla promozione sociale e di iniziative culturali nel tempo libero e al contrasto della emarginazione sociale e della discriminazione razziale, del disagio e della devianza in ambito minorile... prioritariamente nelle realtà più disagiate». E passi per una lingua italiana un poco scadente. Quattrocentoquattro sì, diciannove no (Rifondazione e Comunisti italiani), quattordici astenuti. Dunque un consenso quasi unanime da parte di molti ex oratoriani: cioè da parte di attempati ragazzi non appartenenti alla jeunesse dorée e ai club giovanili ricchi ed esclusivi.
Che dire? Che la si smetta di snobbare strutture che si orientano al mondo dei ragazzi e dei giovani. Una problematica immane. Solitudini da superare. Ideali da proporre. E poi che non si esageri nell'esultanza per la legge approvata. Non si creda che d'ora in poi gli oratori e formazioni simili saranno finanziati dallo Stato. A parte qualche sovvenzione indiretta e qualche concessione in uso gratuito di «beni mobili e immobili, senza oneri a carico dello Stato», sarà ancora in gran parte impegno delle comunità cristiane l'approntamento e la gestione delle sedi dei campi da gioco e della vita degli oratori. Se si eccettua qualche aiuto che potrà venire dalle Regioni. Non a valanga finora: la Lombardia, per esempio, lo scorso anno ha elargito 500 milioni di vecchie lire per tremila oratori. Spiccioli. Chissà che in futuro le cose cambino.
È opportuno non esagerare nell'esultanza anche perché il nocciolo della questione, vale a dire il riconoscimento statuale del valore sociale di queste strutture, giunge assai tardi e appare quasi pleonastico. Tutti o quasi gli italiani, specialmente del Nord, sapevano benissimo di questa finalità e di questi sforzi dei credenti. Silenzio anticlericale durante il Risorgimento. Tentativo di fagocitazione durante il Ventennio. Oblio impacciato - timore di subire l'accusa di confessionalismo, se non proprio di bigottismo - lungo il potere democristiano. Meglio tardi che mai. Adesso lo sforzo maggiore sarà quello di mantenere e di vivacizzare l'identità cristiana degli oratori. Attenzione: spesso chi paga comanda. Momenti di catechesi, di preghiera, di elaborazione culturale, di lealtà nello sport eccetera. Di formazione civile anche. Perché delle strutture poco o tanto ecclesiali non si trasformino quasi insensibilmente in aridi enti comunali o provinciali o regionali o statali dove sia proibito richiedere una precisa mentalità e un austero e lieto stile di vita ispirato al Vangelo. Apertura a tutti i ragazzi - entro certi limiti -, ma coerenza di vita cattolica almeno negli educatori. E passione per trasmettere una fede che sia motivo supremo dell'essere e del crescere di chi liberamente accetta. In una Chiesa smunta come quella in cui ci ritroviamo, non è senza significato questo entusiasmo. Da recuperare forse.
La leggina - non so quanto consapevolmente - lancia anche un messaggio di alto profilo dottrinale. La laicità non sembra coincidere con l'assenza di certezze e di valori umani. Si attua in un sano pluralismo. Non a caso si prendono in considerazione anche le «altre confessioni religiose» che abbiano rapporti istituzionalizzati con lo Stato. Leggo che tra i votanti contrari è serpeggiato un risentito malumore dovuto a una immaginata discriminazione verso i sette milioni di italiani non credenti. Sette milioni? Chi l'ha stabilito? E poi, non credenti italiani unitevi: avanti c'è posto. Non pretenderete che sia lo Stato a far tutto. Quale Stato, poi?