Diverse persone si vanno interrogando circa la misura della reazione militare dell'Occidente al terrorismo afghano scatenatosi soprattutto a New York e a Washington l'11 settembre. Giustamente, mi pare. Nei giorni immediatamente successivi ai fatti luttuosi, ci si chiedeva con insistenza e con comprensibile ansia chi fossero gli autori dei dirottamenti aerei che avevano provocato migliaia di vittime innocenti. Oggi questo enigma pare chiarito in modo inequivocabile. Sembra anche che non sia del tutto agevole illudersi circa la validità di un dialogo che, per adesso, si misuri con una violenza inaudita e rechi la pace, almeno dalla parte dei terroristi. I quali non nascondono la volontà di continuare la loro opera negativa per molte ragioni non sempre comprensibili.
       Ed ecco la domanda: se si osservano le scene drammatiche di bombardamenti angloamericani e di operazioni militari di terra in Afghanistan, si può sostenere che ci si trovi di fronte a un intervento proporzionato ai danni provocati in America? Va da sé che le reazioni contro i terroristi devono contenersi nei limiti minimi indispensabili per raggiungere una qualche pace passabile, e non possono colpire uomini e donne che con l'aggressione non hanno nulla a che fare. Ma ecco, appunto, l'interrogativo che ritorna: per riparare il male provocato dal crollo delle Torri gemelle e del Pentagono era davvero indispensabile distruggere intere città? E coinvolgere innumerevoli cittadini costretti a lasciare le loro case e a emigrare dal loro Paese? E organizzare qualcosa che assomiglia a una vera e propria guerra? Si può continuare con gli interrogativi, ma il problema è chiaro.
       Intanto, bisogna togliere di mezzo un equivoco che arruffa tutta la questione: i bombardamenti e le azioni militari di terra non sono decisi e attuati per riparare un torto - men che meno uno smacco - subìto. L'onestà dell'intenzione va riconosciuta fino a prova contraria. E poi, non si tratta per principio di vendetta o di applicazione della legge occhio per occhio, dente per dente. A parte qualche risentimento istintivo che è dato di registrare, in gioco è la decisione  e il diritto - di far cessare il terrorismo. A meno di interpretare come fanfaronate, per principio, le minacce più volte manifestate dai mandanti delle stragi proditorie, il pericolo si profila anche per il futuro: un pericolo a cui bisogna sottrarsi. C'è dell'altro: non serve atteggiarsi a esperti militari per capire che qui non si ha a che fare con una guerra tradizionale: un conflitto, cioè, dove ci siano due fronti chiaramente identificati e contrapposti. No. Il terrorismo costringe a una lotta a 360 gradi: il nemico può essere a destra o/e a sinistra, davanti o/e dietro; la sciagura può venire dal cielo o da un uomobomba che si suicida uccidendo; la minaccia può nascondersi in un fortilizio o in un appartamento dello stesso pianerottolo del palazzo in cui si abita; il terrore può scoppiare al supermercato o in un pullman di linea. Si è a una sorta di virtuale - e talvolta reale - attentato ubiquitario che reca dolore e morte. Così che la guerra attuale si disegna davvero come nuova. Misurare la proporzione tra terrorismo e tentativo di estirpare il terrorismo, è misurare grandezze non omogenee. E si ammetta: il confronto avviene tra un nemico occulto che può colpire vigliaccamente nascondendo la mano, e un nemico palese costretto a giustificarsi di continuo sotto gli occhi di tutti. Volevo segnalare la complessità del problema. Da non dare come risolto nemmeno per sottintesi.

Instagram
Powered by OrdaSoft!