Come e quando nascono le leggi? Non intendo la modalità tecnica: discussione in Parlamento, firma del presidente della Repubblica, pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale ecc. No. Voglio dire: in quale contesto civile, in quale quadro culturale, da quali spinte innovative, da quale condizione di stanchezza, per quale volontà punitiva o per non so cosa diavolo un popolo si dà una legge? Me lo chiedevo durante la maratona che ha condotto all'approvazione concitata e rabbiosa di un federalismo abbastanza tormentato e non soverchiamente generoso. Mi tornava alla mente una pagina di Chesterton. Con uno dei suoi paragoni bizzarri e dei suoi racconti strampalati, lo scrittore inglese rovescia una convinzione abbastanza comune, secondo la quale l'istituzionalizzazione di una spontaneità e il codificarsi di un desiderio segnerebbero un periodo di stanca, di monotonia, di rassegnazione, di voglia di costringere, insomma la normalizzazione rassegnata dopo l'aspirazione più gagliarda. Chesterton analizza un gruppo di ragazzi che giocano in un prato. Quando sono freschi e scattanti, essi inventano addirittura le norme che si danno e alle quali si attengono con disciplina ferrea, quasi con audace e gioiosa pedanteria. E la fase dello «statu nascenti», allorché si avverte una voglia matta di proiettarsi nel futuro e, per durare nel gioco e stare insieme il più a lungo possibile divertendosi, ci si impongono diritti e doveri da rispettare senza la minima contestazione.
       Poi arriva il tempo della fedeltà, dell'ordine, della disciplina, della compostezza. Allora i ragazzi sono perfettamente consapevoli che la figura più importante in campo è l'arbitro. Niente indisciplinatezze. Niente scatti di ribellione. Niente fuori tema. Poco genio, forse. Obbedienza cieca, piuttosto: davvero cieca, poiché alla decisione della guida della gara si deve rendere ossequio anche quando si è convinti che sbaglia. Si è al periodo della legalità a ogni costo. Si obietterà che, così, si fa una guerra o si organizza una ditta, non ci si diverte. Manco per sogno: l'ossequio alla norma e l'accoglienza dei giudizi arbitrali sono condizioni previe e inoppugnabili perché il gioco persista. Magari senza entusiasmi, ma persista. II gioco ha - deve avere - regole fisse e precise perché riesca e alla fine si sappia chi ha vinto e chi ha perso. Regole fisse, dicevo, che, lungi dall'essere percepite come vincoli opprimenti, costituiscono esattamente ciò che fa bello un gioco e permette passione, esaltazione, fantasia, estro, virtuosismi anche, dentro uno schema stabilito, un ordine determinato, una disciplina accolta. Il gioco è universo serissimo. Perciò accalora e rallegra.
       Allorché i ragazzi sono stanchi, iniziano a non stare più alle leggi e alle applicazioni delle leggi. Il fischietto non è quasi più richiamo. Si finge di non essersi accorti di sbagli. Si disprezzano o, almeno, si contrastano magari occultamente le regole. Ci si spinge perfino a fallacci pesanti e pericolosi. E questa degenerazione anonima, anarchica, furba o violenta, fa sì che da qualsiasi gioco si parta, si perda gusto ed eleganza e si arrivi a qualcosa come la lotta libera, dove l'arbitro è vivamente pregato di assentarsi; per il resto, si salvi chi può. Macché svago e schema. E il momento in cui le mamme chiamano i figli: «Statu declinanti». Si curano le ferite. Si impreca contro l'avversario. Doccia. Compiti. Cena. Un po' di tv. E a nanna senza soverchia allegria. Con la mutria, anzi.
       Che c'entra tutto ciò? Appunto, stavo pensando alla legge sul federalismo approvata al galoppo, con esasperazione, con iracondia, con risentimento, sul filo di lana. Legislatori scalpitanti, pimpanti, fanatici, che smaniavano irrefrenabilmente per un futuro a portata di mano: gioco e leggi? Legislatori desiderosi di compostezza, di normalità, di ordinamenti? Mah. Erano allegri o stavano misurandosi in una sorta di braccio di ferro? Equivocità. Broncio. Dispetto. Rivalsa. Cattivo segno. Da non imitare.
       Devo aggiungere che Chesterton non ha previsto - pur nella sua balzana fantasia - che, a un certo momento, una delle due squadre imponesse le proprie leggi del gioco anche all'altra, tanto sarebbe fuori logica l'ipotesi. A che gioco si giocherebbe, nel caso? Comunque, è mancanza di serietà e, perciò, di divertimento. Con tanti saluti a una democrazia anche appena passabile.

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